Avviato il countdown del collasso europeo, mentre nasce il nuovo nazionalismo dell'est

Il 7 marzo si svolgerà l'ultimo vertice europeo utile per trovare un accordo sulla crisi dei rifugiati, dove parteciperà il premier turco, a cui è affidata la sorte dell'Unione. Oltre ai muri sulle frontiere, è nata una nuova cortina di ferro di tipo nazionalistico composta dai paesi del "blocco neoasburgico", capeggiati dall'Austria, e da quelli di Visegrad, al cui comando vi è il governo autoritario ungherese: tutti uniti contro la Grecia.

 

26 febbraio 2016

By Marco Marano

 

Si avvicina la disintegrazione politico-economica dell'Unione Europea, ormai il conto alla rovescia è iniziato. L'ultima occasione utile, è fissata per il 7 marzo, quando i 28 paesi s'incontreranno con il primo ministro turco Davutoglu, per porre rimedio alla situazione di assoluto caos prodotto dalla nuova cortina di ferro, in senso nazionalistico, eretta dai paesi della rotta balcanica.

Da un lato c'è il patto di Visegrad composto da Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia. La loro posizione è quella di escludere, in modo unilaterale, Atene dall'area Schengen. La proposta, partita proprio da Orban, l'autoritario premier ungherese, si configura in un nuovo muro di filo spinato al confine tra la Macedonia e appunto la Grecia. Sempre Orban ha annunciato di essere intenzionato a tenere un referendum sulle quote di accoglienza. Proprio lui a settembre, si era schierato contro il piano di redistribuzione di 160mila migranti, e in dicembre 2015 ha presentato, insieme alla Slovacchia, un ricorso contro il suddetto piano.

 

Poi c'è il nuovo "blocco neoasburgico" dei Balcani occidentali, formato da Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Kosovo, ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom), Montenegro, Serbia e Slovenia. Anche la loro posizione è quella di isolare la Grecia da Schengen. Durante il vertice svoltosi a Vienna, la settimana scorsa, hanno sottolineato che: "La Grecia non ha espresso alcun interesse a ridurre i flussi migratori, ma all'opposto continua a farli passare attraverso l'ex Repubblica iugoslava di Macedonia da dove prendono la via per il Nord".

Le istituzioni europee, intanto, si limitano ad asserzioni di principio e non riescono a gestire la deriva nazionalistica intrapresa dall'Europa dell'est. Sul referendum annunciato dal premier ungherese Natasha Bertaud, portavoce della Commissione, così si è espressa: "Non riusciamo a capire come possa inserirsi in un processo decisionale approvato da tutti gli Stati membri, inclusa l'Ungheria, con i trattati dell'Unione europea". L'obiettivo di Orban è chiaramente mostrare un largo consenso nazionale, aggirando i trattati europei. Anche perché in tutta l'area balcanica fino alla Germania, i rigurgiti di piazza anti-immigrati stanno sempre di più evolvendo non solo in avversione generalizzata delle opinioni pubbliche nei confronti dei rifugiati, ma in azioni di violenza da parte dei gruppi neo-fascisti.

 

Dal canto suo il Presidente del parlamento europeo Martin Schultz, ammette che la situazione sembra essere senza vie d'uscita: "Vi do delle cifre. I 28 Stati membri dell'Unione europea contano, tutti insieme, 508 milioni di abitanti. Non ci sarebbero problemi se ripartissimo l'attuale milione di rifugiati tra tutti gli Stati. Il problema è che oggi sono soltanto due o tre i Paesi coinvolti dalla crisi. E questo crea disfunzioni. Trovo cinico il rifiuto degli Stati membri a far parte dello schema di redistribuzione, perché cosi non se viene fuori. Anche perché spesso poi si arriva a criticare l'Europa, ritenuta incapace di risolvere le crisi. E' una situazione senza precedenti nella storia europea".

La Grecia intanto sembra spazientita dalle decisioni unilaterali della "nuova cortina di ferro". Il Ministro all'immigrazione Yiannis Mouzalas, a proposito della non applicazione del piano di redistribuzione dei 160mila rifugiati, in una intervista rilasciata ad Euronews, ha lasciato intendere che è vicina una vera e propria crisi diplomatica con l'Austria: "Il piano non è stato applicato perché molti Stati membri, inclusa l'Austria, invece di lavorare alla sua messa in atto sono impegnati a recintare i loro confini. Lo abbiamo fatto già presente, dobbiamo scegliere se far parte dell'Unione europea o no. L'Austria è stata fino a oggi un Paese amico, ma ora ha cambiato atteggiamento. Non dico che è un Paese a noi ostile, ma che le sue azioni lo sono e avranno effetti molto dolorosi per il resto dei Paesi europei... Insisteremo a far sentire la nostra voce. E' chiaro che se le azioni comuni perdono di importanza saremo costretti a procedere anche noi in modo unilaterale. E non perché non crediamo all'Europa, ma perché non abbiamo altra scelta."

 

La Turchia, la quale aspetta i tre miliardi promessi dall'UE per accogliere tutti i flussi provenienti dalla Siria e dall'Iraq, nel frattempo continua a fermare e maltrattare i rifugiati sia ai confini che dentro il paese. Realisticamente in pochi fanno affidamento sulle capacità del suo governo di risolvere una situazione che ha tutti i sapori di una svolta epocale. Le guerre mediorientali che determinano un fenomeno globale come quello delle fughe di massa dei rifugiati, possono avere solo una risposta europea nella sua interezza. Scegliere una risposta nazionale, in senso nazionalistico, ad un fenomeno globale determina quel collasso, che ormai sembra inarrestabile.

 

CREDITS Reuters