La guerra dimenticata dello Yemen

30 ottobre 2015

By Marco Marano

Sa'da è una cittadina yemenita del nord-est, quasi al confine con l'Arabia Saudita, che conta circa sessantamila abitanti. E' lì che era posizionato un ospedale di Medici Senza Frontiere, distrutto, dopo quello in Afganistan, questa volta dalle bombe saudite. Dopo il primo bombardamento il personale è riuscito ad evacuare la struttura e questo è servito a salvare la vita ai pazienti. In seguito ad altri cinque bombardamenti l'edificio è stato raso al suolo, provocando sette feriti. L'ospedale serviva un'area di circa 200 mila persone e in un momento di guerra così accesa la sua assenza provocherà una ennesima crisi umanitaria.

Secondo il portavoce di MSF Hassan Boucenine, intervistato da Al-Jazeera, l'attacco è stato intenzionale: "Appena due settimane fa avevamo fornito le coordinate della struttura alla coalizione saudita... Non c'è alcuna ragione di colpire un ospedale, questo è un crimine di guerra..." Mentre il Segretario dell'ONU condanna il raid arabo, Amnesty International chiede una inchiesta internazionale, in un paese dove il conflitto bellico si fa ogni giorno che passa sempre più cruento, ricadendo soprattutto sulla popolazione civile. Un ricordo ancora vivo è legato alle 140 vittime dell'attentato suicida alle due moschee sciite della capitale San'a', il 20 marzo scorso, per mano dell'Isis.

Quello yemenita è un conflitto, come avviene in Siria, in Iraq, in Libano e in Afghanistan, di tipo regionale, per questo assai complesso da interpretare agli occhi dell'occidente, che infatti lo ignora. Da un lato c'è il governo provvisorio sunnita, supportato dall'Arabia Saudita, sostenitore del Presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, defenestrato dai ribelli Houthi, sciiti, che grazie all'Iran hanno preso possesso di ampie parti del paese, appoggiati dalla vecchia nomenclatura e da gruppi sul territorio sostenitori dell'ex presidente Ali Abdallah Saleh, sciita anch'esso, di cui però Mansur Hadi era stato vice presidente dagli anni novanta. Tutto questo in un paese dove sulle tribù si fonda l'intero sistema sociale, e la cui economia si basa sui quei pozzi petroliferi che dovrebbero esaurursi nel giro di un paio di anni.

 

Ma andiamo per ordine. I fatti che contraddistinguono oggi l'instabilità dello Yemen, sono intimamente legati alle primavere arabe del 2011, e non rientrano nell'agenda della comunità internazionale. Essi sottolineano come la speranza e la fuga siano l'una il risvolto dell'altra, nel momento in cui un popolo aspira a vivere in pace nel proprio paese. Forse si avvicina l'ora di un nuovo esodo di massa, quello yemenita, appunto.

Nel 2011, in pieno fermento delle primavee arabe, un grande movimento di opposizione si era formato nel paese, stimolato soprattutto dai giovani, che nel rispetto della religione islamica, chiedevano diritti e democrazia. Tanto forte fu la protesta che il Presidente Ali Abdallah Saleh fu costretto a lasciare il potere. Da allora le vicende del paese hanno preso una strana direzione, cioè quella della guerra di religione, tra sunniti, 60 per cento della popolazione e sciiti, 40 per cento... Ma essi, come abbiamo detto, sono fondamentalmente governati dall'esterno: i sunniti sono sostenuti dalla confinante Arabia Saudita, vicina all'occidente e agli Stati Uniti, mentre gli sciiti sono per l'appunto appoggiati dall'Iran, che contro gli Stati Uniti combatte una guerra di posizione dall'avvento dell'ayatollah Khomeini.

Se questa è la situazione di scenario, i fatti che si sono evoluti negli ultimi anni raccontano di lotte per il potere da parte di due uomini, nel contesto di una società tribale, che fino a pochi anni or sono era suddivisa in due distinti paesi, separati da una linea geografica: il nord dal sud. E proprio in questo Yemen riunito in un unica bandiera, almeno formalmente, si sono inseriti i rappresentanti dello jihadismo estremo: prima al-Qaeda e ultimamente lo Stato islamico, i quali si combattono tra loro, in una sorta di guerra parallela, somigliante a quella siriana. Anche qui, comunque, ci troviamo di fronte a delle maschere che rappresentano il potere inteso come solita rappresentazione di morte, quella che contraddistingue ormai "vocazionalmente" i paesi al di sotto del Mediterraneo.

Ma vediamo i principali personaggi ed interpreti di questo ennesimo dramma mediorientale. Ali Abdallah Saleh è forse l'uomo che rappresenta il passaggio chiave della storia recente yemenita, una storia di guerre civili che si succedono praticamente dagli anni sessanta, passando dal marxismo al populismo ed infine, appunto, all'islamismo. Sciita zaidita, Saleh prese il potere nel 1978 nello Yemen del nord, restandoci con l'unificazione del 1990. Nel '94 si riaccese una breve guerra civile, legata, come avviene spesso in questi casi, a rendite di posizione, tra nord e sud. Il generale sunnita Abdrabuh Mansour Hadi, aiutò Saleh a mettere fine alla nuova contesa, diventando il suo vice fino al 2011. Poi, divenne presidente, grazie ad un accordo di transizione del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Saleh accettò senza fare tanti problemi, però chiese ed ottenne immunità. Infatti vive ancora nella storica capitale di Sana'a, in un castello che è una sorta di fortezza, con un piccolo esercito a proteggerlo.

Dopo la stagione delle primavere la situazione si è solo apparentemente stabilizzata, poichè lo Yemen essendo geograficamente una sorta di crocevia tra Asia ed Africa, come sottolineato dalla rivista Limes, ha attirato cammin facendo tutte le maggiori e più radicali correnti dello jihadismo: da Shabab, tra Somalia e Kenia, allo Stato islamico siro-iracheno, al fondamentalismo centro-asiatico, di uzbeki e ceceni...

 

Ma essendo terra di tribù, nel 2014 il movimento Houthi usciva allo scoperto per avere una maggiore influenza sulla distribuzione del territorio, un diritto derivato dal fatto di essere i diretti discendenti degli imam, ma anche dal fatto che costituiscono un terzo dei 25 milioni di abitanti che compongono la popolazione yemenita. Gli Houthi sono sciiti zaiditi, il medesimo ceppo dell'ex presidente Saleh, quello che vive dentro una fortezza nella capitale. E lui il deus ex machina di questa operazione bellica orchestrata dall'Iran, che fornisce armi ad un movimento che nel giro di pochissimo si è trasformato in esercito.

Nel gennaio del 2015 questo esercito irregolare entrava nella capitale Sana'a e se ne impossessava, al punto che il presidente Mansour Hadi veniva defenestrato. Qualche mese prima la Conferenza sul Dialogo Nazionale (CDN), cercava di redistribuire il potere tra le diverse tribù, risalenti all'epoca pre-islamica. Infatti era stata avviata una sorta di transizione politica per combattere al-Qaeda sul territorio, la quale riusciva ad impiantare le sue radici grazie all'insofferenza di alcune tribù sunnite, infastidite dalle logiche espansive degli Houthi.

Nel 2014 Mansour Hadi cercava una pacificazione con la tribù sciita appoggiata dall'Iran, tanto da proporre un governo di unità nazionale. In un primo momento gli Houthi accettarono, poi ci ripensarono ed iniziarono l'operazione della presa di San'a' con il rapimento del capo dello staff presidenziale. Nel mese di gennaio l'offensiva militare sciita penetrava il palazzo presidenziale. Hadi, formalmente si dimetteva, ma con l'aiuto dei sauditi si rifugiava nel sud del paese, ad Aden, dove lì si insediava insieme al suo primo ministro Khaled Bahah, trasformando la città in nuova capitale provvisoria. Mentre il Comitato rivoluzionario degli Houthi nominava a San'a' il suo presidente, Mohammed Ali al-Huthi.

Durante tutto il 2015 la recrudescenza del conflitto in Yemen si è sviluppata tra gli attentati jihadisti in moschee, strade e mercati, mentre l'offensiva aerea saudita, con le bombe a grappolo fabbricate negli Stati Uniti, ha colpito case, scuole, ospedali, linee elettriche, approvigionamenti idrici ed un sito patrimonio dell'Unesco. In contemporanea la marcia verso Aden degli Houthi ha determinato violenze punitive contro la popolazione civile e le loro proprietà, senza farsi scrupolo di utilizzare bambini soldato. E tutto questo nel silenzio dei media occidentali, così quando il popolo yemenita inizierà a fuggire per salvarsi la vita in Europa, i ben pensanti, probabilmente, ripeteranno le stesse filastrocche di sempre: "bisogna aiutarli nel loro paese..." Oppure: "Non possiamo ospitare tutti..." O ancora: "Vengono a toglierci il lavoro..."