LE PRIMAVERE E LE GUERRE DI RELIGIONE

 

IN NOME DELLA SHARIA

 

Quella faida annunciata

Quando, in quelle terre antiche, ci fu lo scisma, i copti erano la setta cristiana che credeva nella natura umana quanto nella natura divina di Cristo, ma non nella commistione delle due. Dal IV secolo i cristiani delle terre d'Egitto sono copti. Dopo l'avanzata araba sul territorio, dovettero resistere e restarono in pochi, una setta appunto: oggi sono appena il dieci per cento. Da sempre sono stati soggetti a violenze da parte della maggioranza, anche se la legislazione islamica gli permetteva di professare le loro idee, mettendo però due precetti indissolubili: nessuna conversione al cristianesimo da parte di un islamico e nessun matrimonio tra una donna musulmana e un uomo cristiano, pena la morte.

Ashaf questo lo sapeva benissimo ma non gli importava perchè lui l'amava quella ragazza musulmana. Del resto non voleva neanche convertirsi all'islamismo, perchè questo avrebbe significato tradire la propria famiglia. Una famiglia di contadini, nel villaggio di Soul a pochi chilometri dalla capitale, dove vivono dodicimila copti. Una storia d'amore proibita dalle leggi, questa, anzi potremmo dire condannata da esse.

Ci fu un incontro riparatore tra le famiglie, dopo che i due vennero scoperti. Il padre della ragazza fu cauto e saggio, il disonore poteva essere lavato senza bisogno di sacrificare nessuno: Ashaf doveva andare via immediatamente. Le due famiglie si accordarono dunque... Ma in un villaggio di contadini nel cuore dell'Egitto, dove la dimensione religiosa può determinare la vita e la morte delle persone, una storia come questa non poteva essere digerita da tutti. Entra di scena un cugino della ragazza che, presumibilmente mandato dal resto della famiglia, vuole vendicare a tutti i costi l'offesa e l'infamia ricevuta: il colpevole diventa il padre, che non ha lavato col sangue il tradimento della legge coranica, per questo deve pagare. Lo affronta e gli spara, uccidendolo sul colpo. Questo atto si trasforma in una faida, perchè il figlio del saggio e cauto contadino che non voleva spargere sangue, decide di vendicarsi a sua volta sul cugino. Lo affronta e gli spara, uccidendolo sul colpo.

Già, il contadino saggio e cauto che non voleva spargere sangue, non poteva immaginare cosa avrebbe generato quella sua decisione. Perchè la notte seguente il suo funerale, in quel pezzo di terra mediorientale, si sarebbe scatenato l'inferno. Migliaia di persone, tutti di religione islamica, assalivano il villaggio, mettendolo a ferro e fuoco. Sette ottomila cristiani copti venivano aggredidi e cacciati dalle loro abitazioni. Una notte impazzita, che doveva lavare l'offesa subita, perchè i responsabili di quella faida familiare rimanevano comunque i copti. L'incubo era tornato, come qualche mese prima ad Alessandria, una folla inferocita si diresse verso la chiesa del villaggio: San Mina e San Giorgio. Dissacrarono le croci, ma questo non poteva bastare e quindi con sei bombole a gas fecero saltare in aria la chiesa. Dentro vi era rimasto il suo sacerdote, padre Yosha, scomparso da quella notte insieme ai suoi tre diaconi. Non poteva immaginare certo tutto questo il contadino saggio e cauto che non voleva spargere sangue...

 

Una regia occulta sugli scontri di religione

Le settimane successive alla caduta di Mubarak furono caratterizzate da aspri scontri, in una guerra religiosa che sembrava riaccendersi tra la minoranza dei cristiani copti e la maggioranza dei musulmani. Abbiamo raccontato la storia della faida familiare che ha scatenato la violenza, ma alcuni aspetti che entrano in questa vicenda e che vi si avvicinano, non sembrano facilmente decodificabili. Ma partiamo dai fatti…

Se lo scontro tra le due confessioni religiose in Egitto è in qualche modo secolarizzato, da Nasser in poi non vi sono mai stati eventi legati a fatti di violenza o intimidazione tra le due comunità, almeno fino a quando al Qaeda non è entrata nella scena internazionale, il cui leader ha di tanto in tanto buttato un po’ di benzina sul fuoco.

Il primo vero evento luttuoso si ha nella notte di capodanno. Dalla chiesa dei Santi di Alessandria stanno per uscire i fedeli, ed è proprio in quel momento che esplode una bomba. Rimangono uccise ventuno persone, mentre nel quartiere di Sidi Bishr musulmani e cristiani si affrontano per strada armati di bastoni.

Tra accuse reciproche, la tensione si placa, fino ad arrivare ai giorni caldi che poteranno alla caduta del regime, e che vedranno musulmani e cristiani fianco a fianco, in piazza Tahrir, per protestare contro il regime di Mubarak. Poi, l’incendio della chiesa di Soul. Da quel momento al Cairo si sono susseguite manifestazioni e scontri che hanno causato parecchi morti.

Questi i fatti relativi allo scontro tra confessioni, che si vanno ad incrociare con altri fatti che possono avere un peso diverso a seconda di come si leggono. In tal senso c’è una considerazione da fare e cioè che per la prima volta nella storia dell’Egitto le due confessioni si sono trovate insieme in piazza a chiedere un cambiamento politico e ad innescare una rivoluzione interreligiosa epocale.

In seguito agli accadimenti di Soul ci sono state altre due notizie di estremo interesse da analizzare. La prima è che l’Imam dell’Università islamica di Al Azhar, massima autorità sunnita, condannava il rogo, definendolo una “distorsione dell’Islam”, sollecitando la comunità musulmana del villaggio di ricostruire la chiesa cristiana. La seconda è che ai cortei cristiani, della capitale, davanti alla televisione di stato, per chiedere la ricostruzione dell’edificio di culto, si univano, in segno di solidarietà, centinaia di musulmani.

Ma allora, se nella popolazione si diffondeva una coscienza comune verso il cambiamento politico del paese verso la democrazia, viene da chiedersi il motivo per cui continuava ad arrivare benzina sul fuoco tra musulmani e cristiani. Analizziamo un paio di spiegazioni plausibili...

Il primo dato è che il governo Mubarak non è mai stato interessato a pacificare le parti in causa in modo determinato, denunciando “la mano straniera” dell’Iran dentro le vicende egiziane e i collegamenti terroristici con al Qaeda. Tra l’altro, le forze di sicurezza egiziane, sia polizia che esercito, non sono mai intervenute direttamente a sedare scontri interreligiosi. E’ di esempio la notte di Soul quando le pattuglie dell’esercito attrezzati di cingolati, che stazionavano in un villaggio vicino, furono convinti dalla folla a non intervenire. Dalle denunce di alcuni esponenti della chiesa cristiana sembrava che poche ore prima dell’assalto al villaggio, un uomo non identificato, si aggirava per le strade aizzando gli animi sulla faida familiare, che diventava il motivo scatenante nella notte “dei lunghi coltelli”.

C’era poi una notizia interessante, passata un po’ inosservata, e cioè che furono arrestati 84 ufficiali dell’intelligence di Mubarak, accusati di aver preso parte agli attacchi in piazza Tahrir e aver torturato dei detenuti che avevano partecipato alle proteste di gennaio, dopo i fatti di Alessandria. Sempre lo stesso giorno degli arresti, negli scontri tra copti e musulmani al Cairo, dove sono morte 13 persone, per come si sono messe le cose in piazza, tra molotov e pistolettate, sembrava che ci fosse una regia nella creazione di disordine e caos.

Da quello che si evince, dunque, una ipotesi seria potrebbe essere quella che a fomentare gli scontri religiosi siano stati pezzi dei servizi di sicurezza di Mubarak, ufficialmente sciolti dal governo in carica, ma attivi sul territorio, per far sprofondare l’Egitto nell’ingovernabilità. In tal senso sia l’attuale governo che gli stessi Fratelli Musulmani, i quali si sono dichiarati favorevoli alla svolta democratica, hanno denunciato un tentativo controrivoluzionario da parte del servizio investigativo dell’ex ministero dell’Interno, accusandolo di essere il fomentatore degli scontri interreligiosi. E in effetti questa spiegazione risponde a tanti interrogativi.

 

Il grande demiurgo islamico

La primavera araba che aveva portato alla defenestrazione di Mubarak, e del suo trentennale potere autocratico, aveva visto il popolo nella sua interezza a condividere la rabbia d’una società senza libertà e democrazia. Oggi si stanno nuovamente riproponendo le stesse dinamiche, nel momento in cui i Fratelli Musulmani, speranza moderata del mondo arabo, hanno preso il potere, in seguito alle prime elezioni libere, con la vittoria di Mohamed Morsi.

Il nuovo Presidente, con la sua maggioranza islamica all’interno dell’Assemblea Costituente, ha emendato una serie di decreti che, condizionando la separazione dei poteri, hanno generato nuove proteste popolari. L’elemento aggiuntivo di questi giorni è che entro la settimana, anziché entro due mesi, il progetto della nuova costituzione verrà approvato, con i decreti che hanno generato le proteste popolari, quelle delle forze laiche e della magistratura.

Nella nuova costituzione viene ridisegnata l’impalcatura dello Stato, determinando i poteri del presidente, che presumibilmente saranno predominanti, e del parlamento, delineando i ruoli della magistratura e di un apparato militare, che era stato al centro del potere per decenni, fino a quando Mubarak è stato rovesciato. Sarà inoltre definito anche il ruolo della legge islamica, o sharia.

Mentre gli scontri nelle piazze si riaccendono, insieme alle proteste delle opposizioni e della minoranza dei cristiani copti, l'organizzazione Human Rights Watch ha espresso preoccupazione per la somma di poteri che il Presidente ha accentrato su di sé, più dell’apparato militare che ha sostituito. A questo si aggiunga l’imbarazzo dei governi occidentali, che hanno trovato in Morsi “il grande mediatore” della guerra di Gaza, il quale mentre mediava tesseva le fila di questa sorta di “golpe bianco”, con l’abilità strategica di un demiurgo. Questo però potrebbe essere l’inizio di una nuova guerra civile…

 

L’islamismo tra costituzione e territorio

Un'altra primavera araba si profila in Egitto. Ormai gli scontri si susseguono a ritmo incalzante e piazza Tahrir è ritornata ad essere il luogo simbolo delle nuove rivolte. Questa volta però il conflitto non è più tra il popolo ed il potere autocratico, ma tra due grandi blocchi sociali: da un lato vi è la maggioranza islamica rappresentata dai “Fratelli Musulmani”, dall’altro lato vi sono mondo laico e chiesa copta.

Si, perché, il “colpo di mano” fatto dal presidente Morsi, con l’assalto alla divisione dei poteri, attraverso il decreto presidenziale che toglie prerogative al sistema giudiziario, insieme allo sbrigativo varo del testo costituzionale, che accoglie la situazione data ed inoltre inserisce la sharia come valore supremo, nasconde in realtà il fatto che i Fratelli Musulmani sanno di essere maggioranza nel paese. Una maggioranza schiacciante che Morsi vuole usare per il referendum indetto il 15 dicembre, quando il popolo egiziano dovrà esprimersi sulla costituzione che possiamo definire di tipo islamico.

In questi giorni si è creata una ridefinizione dei rapporti di forza nella società egiziana, rappresentate dalle manifestazioni di piazza e dagli scontri: da un lato i manifestanti contro Morsi dall’altro quelli pro Morsi. Se durante la primavera araba contro Mubarak si erano schierate tutte le forze sociali in campo, dai Fratelli musulmani alla chiesa copta, dalle forze moderate ai liberali, oggi il discrimine è l’islamismo contro tutti.

C’è un elemento di riflessione su quello che avviene in Egitto che permette un confronto trasversale tra alcuni paesi del nord Africa e altri sub sahariani. In Tunisia, ad esempio, luogo dove la primavera araba è nata, il partito islamista al potere, eletto dal popolo, Ennahda, sta ridefinendo i caratteri delle rivolta popolare, che portò alla defenestrazione del dittatore Ben Alì, attraverso un’altra carta costituzionale, in questo momento ancora in discussione in Assemblea Costituente, dove si sta cercando di inserire elementi della Sharia.

In Nigeria e in Mali, la situazione è ancora peggiore perché questi paesi sono territorialmente divisi tra nord e sud, dove governano dai tuareg ad al-Qaeda. Qui la situazione è ancora più problematica, poiché vi sono guerre in corso tra più contendenti.

Se guerre e potere nei paesi del sud del mondo sono strumenti per concorrere alle ricchezze, è anche vero che il rapporto tra islamismo e laicità sta per diventare il tema forte del ventunesimo secolo. Un altro muro sta per erigersi, questa volta in Medio Oriente e in Africa: il muro della sharia.

 

Un golpe per cosa?

In queste ore si sta consumando la nuova fase della rivoluzione araba, visto che il Presidente Morsi ha rifiutato l'ultimatum dell'apparato militare di fare un passo indietro e lasciare il potere. Subito dopo  la fine dell'ultimatum il Presidente egiziano è stato posto in arresto insieme a molti degli esponenti dei Fratelli musulmani. In questo momento è in corso un vero e proprio golpe militare, almeno tecnicamente parlando. A differenza però dei golpe militari del passato questo ha l'appoggio di almeno metà del popolo, che sta manifestando la sua gioia per le strade egiziane. Le immagini di France 24 o della CNN o ancora di Al Jazeera sono ferme sulla massa di persone che festeggiano in piazza Tahrir: luci, fuochi d'artificio, laser verdi si vanno ad intersecare in questa serata di catarsi, dopo le manifestazioni di protesta degli ultimi tempi.

Morsi ha deciso di sfidare il potentissimo potere militare egiziano, che fece la differenza anche durante la prima parte della primavera araba. I militari egiziani non tollerano due cose: il caos e la mancanza di stabilità, due cose su cui il Presidente ha fallito in pieno. Morsi ha garantito metà della popolazione, quella musulmana legata alla fratellanza. Non ha saputo costruire una democrazia di tipo islamico, garantendo separazione dei poteri e una costituzione equilibrata. Il laboratorio non ha prodotto i risultati auspicati dalle democrazie occidentali.

 

L’hogra, il potere e la rivoluzione rubata

"Vedrai che prima o poi le cose si aggiustano anche per noi!" Glielo ripeteva sempre al fratello minore Salem. Che forza d’animo che aveva questo piccolo grande uomo, in quel centro agricolo a 160 chilometri da Tunisi. E chissà che anche quella mattina, che avrebbe cambiato il mondo arabo, Mohammed non l’avesse pensato, cioè che un giorno avrebbe potuto mettere a frutto quella laurea in Lingue e Letteratura araba, appesa al muro nella casa dei suoi genitori, come un vanto, ma forse soprattutto come un simbolo di speranza, per riscattare l’intera famiglia.

Il 72 per cento dei disoccupati tunisini hanno dai 15 ai 29 anni, di questi il 60 per cento sono laureati. Paradossalmente però la disoccupazione non era la cosa peggiore da sopportare ai tempi di Ben Alì, peggio di tutte era l’hogra, cioè l’umiliazione imposta dal potere assoluto delle autorità e dal disprezzo riversato nei confronti dei cittadini comuni. Solo chi ha vissuto in terre governate dalla mafia può capire un po’ cosa significa l’hogra… Un sistema di potere cioè costruito sugli esclusivi interessi di alcuni clan familiari che attraverso gli affari con i paesi europei hanno attivato un sistema turistico sfavillante, a basso costo di manodopera. Un sistema di potere governato dall’avidità di una famiglia presidenziale saccheggiatrice delle risorse del paese e quindi del popolo, dove le regole giuridiche e sociali erano soltanto dei paraventi per garantire i privilegi di pochi e perpetrare soprusi verso i più deboli… Un sistema di potere dove sulla polizia, con i suoi confidenti e i suoi sistemi organizzativi per tenere la popolazione sotto scacco, erano concentrate le maggiori risorse, deprivando persino l’esercito.

Quella mattina del 17 dicembre del 2010, come tutte le mattine Tarek al Bouazizi, di ventisei anni, detto Mohammed e soprannominato Bessbouss, doveva pensare a tirare su qualche spicciolo per lui, sua madre e i suoi sei fratelli e sorelle, e non c’era certo il tempo di riflettere su un futuro migliore. Nei suoi piani immediati c’era quello di riuscire a rimediare un furgoncino per evitare di trascinarsi con le proprie forze quel carrettino scassato dove mettere la verdura da vendere come ambulante "abusivo". Quella mattina aveva qualche cassetta di carote ed essendo venerdì, cioè il giorno della preghiera per i musulmani, il luogo più trafficato di Sidi Bouzid, città di quarantamila abitanti, era naturalmente Avenue Bourguiba, davanti alla moschea.

Ma Mohammed lì non ci poteva stare perché non aveva nessuna licenza per poter vendere la sua cassetta di carote, oltre al fatto che davanti alla moschea il giorno della preghiera non si poteva fare. Ma che regola era questa in un paese il cui Presidente Ben Alì si era sempre vantato con l’occidente di aver spento, laicamente, ogni rigurgito islamico… Che razza di regola era questa in un paese dove la corruzione era il principale strumento di gestione del potere. Semplicemente una regola per affamare ancora di più chi non aveva niente, né mezzi per vivere né speranze.

Faida Hamdi era l’unico poliziotto donna di Sidi Bouzid, e toccò proprio a lei far valere questa regola imposta dai suoi superiori. E quella mattina infatti ordinò a Mohammed di allontanarsi da lì. Ma il giovane non ne volle sapere niente, ancora l’hogra, ancora una vessazione, ancora una ingiustizia nei confronti di chi non aveva di che mangiare. Eppure Faida conosceva bene Mohammed, in quel villaggio di quarantamila anime si conoscevano tutti. Ma il suo lavoro era quello e doveva farlo. Litigarono i due al punto che la donna poliziotto cercò di sequestrargli la cassetta di carote e lui glielo impedì strattonandola. Poi lei si mise a piangere e qualche minuto dopo arrivò il Commissario di polizia a sequestrargli tutto quello che aveva.

Fu come se lo avessero ucciso dissero gli amici del ragazzo, e lui come atto di protesta si diresse al commissariato cospargendosi di benzina. "Lui non si voleva uccidere, fu un incidente, voleva solo dimostrare la sua amarezza…" Ricordano gli amici. La fiamma dell’accendino attacca i vestiti e Mohammed grida aiuto agonizzando. Gli estintori del Municipio di fronte sono vuoti, come pure quello del parcheggio di taxi lì vicino. Dopo un po’ qualcuno cerca di spegnere le fiamme con una sorta di mantello…

Il ragazzo che sperava in un futuro migliore morirà tre settimane dopo. La stessa sera però avrà inizio la primavera araba. Un gruppo di amici di Mohammed si diressero a Nurgabi nella zona ovest della cittadina tenendo testa alle forze dell’ordine per settimane, al punto da non riuscire più a gestire la situazione, inducendo Ben Alì a tentare di corrompere i rivoltosi concedendogli tremila dinari a testa (circa 1500 euro).

Ma quei giovani non si fecero corrompere. Su faceebook rimbalzavano le notizie a tamburo battente, tutto il popolo rialzò la testa e altri popoli vicini sentirono il bisogno di alzarla pure loro. Così il dittatore tunisino amico dell’Europa fu il primo ad essere defenestrato. Poi tante speranze presero corpo, tutte quelle che aveva sognato Mohammed e che sempre ripeteva al fratello: "Vedrai che prima o poi le cose si aggiustano anche per noi!" 

 

Un omicidio pianificato

E’ stata una vera e propria esecuzione quella di Tunisi. Chokri Belaïd, segretario generale del Movimento dei patrioti democratici (MOUPAD), di ispirazione marxista, alleati del Fronte popolare, in netta opposizione al governo islamista di Ennahdha, appena uscito di casa, nel quartiere El Menzah, intorno alle 8,15, è stato raggiunto da quattro colpi d’arma da fuoco, sparati a distanza ravvicinata, che hanno colpito la testa, il cuore, la nuca e la schiena.

Ma chi sono gli esecutori di questo omicidio? Per il modo in cui è stato eseguito l’agguato sembra chiaro si tratti di professionisti. Secondo l’Agenzia France Presse, l’assassino sarebbe un uomo che indossava un lungo mantello tradizionale di lana con un cappuccio. Il fratello del leader politico assassinato ha immediatamente denunciato il partito al potere come mandante, mentre il primo ministro Hamadi Jebali, si è difeso parlando di un atto terroristico contro la Tunisia. Sembra abbastanza chiaro che questo omicidio non verrà rivendicato, assumendo una dimensione di tipo intimidatoria per tutta l’opposizione di sinistra. C’è da dire che il partito di Belaïd, come tutto il Fronte popolare, sono stati oggetto negli ultimi mesi di numerosi atti di violenza da parte della fantomatica “Lega per la protezione della rivoluzione”, vicina ad Ennahdha.

Già dalle prime ore, nel momento in cui si è sparsa la notizia dell’agguato, cittadini, forze politiche e sindacali, sono andate a protestare sotto i palazzi del potere in viale Bourguiba chiedendo le dimissioni del governo, stigmatizzando le violenze degli ultimi tempi nei confronti di chi si oppone al potere islamico. Durante i funerali si preannunciano momenti di tensione poiché le forze sindacali potrebbero dichiarare lo sciopero generale.

Ma quali sono le vicende che hanno portato a questo punto la situazione in Tunisia? E come si colloca questo fatto di sangue nel quadro degli eventi relativi alle primavere arabe, a due anni dalle rivoluzioni? E ancora, esiste un rapporto con l’instabilità uscita fuori agli onori della cronaca negli ultimi mesi tra nuovi conflitti in Egitto, guerra in Mali e instabilità della regione mediorientale?

La situazione sociale in Tunisia, come del resto in Egitto, dalle defenestrazioni degli autocrati non si è mai rasserenata, soprattutto dal momento che le elezioni popolari hanno portato al potere i partiti islamisti. Se in Egitto i Fratelli musulmani hanno partecipato, insieme alle organizzazioni laiche, alla rivoluzione, la stessa cosa non si può dire per Ennahdha. Infatti dopo aver vinto le elezioni nel 2011 chi era sceso in piazza contro Ben Alì denunciò una sorta di “scippo della rivoluzione”.

Una volta al potere il partito islamico si è unito in un governo con le destre laiche del paese, appiattite sulle posizioni della maggioranza. Lentamente è cresciuto il dissenso per la “rivoluzione scippata”, anche perché nel tentativo di riscrivere la costituzione, Ennahdha ha cercato di inserire elementi della sharia, così come ha fatto Morsi in Egitto, senza però riuscirvi, almeno fino a questo momento. 

In questo contesto le tensioni sociali sono diventate inarrestabili, sia per il dibattito parlamentare relativo ad una costituzione che tende a limitare le libertà fondamentali che per la nascita di gruppi salafiti che nelle piazze e nelle strade si sono resi artefici di atti di violenza tollerati dal potere politico, e con scarso impegno repressi dalle forze dell’ordine. Anche in questo caso i salafiti diventano protagonisti della scena, come in Mali, dove hanno territorializzato il nord del paese all’insegna della sharia, con tutte le violenze che ne sono conseguite, scalzati dalla Francia che è intervenuta col proprio esercito, relegandoli al confine con l’Algeria.

Ma allora questo atto di sangue innescherà una nuova primavera araba? E' quello che si stanno domandando tutti gli analisti del mondo...

 

L’inconciliabilità tra l’islamismo e il laicismo

Mentre  l’Egitto è sull’orlo di una guerra civile, in Tunisia è stato assassinato un altro membro della coalizione di sinistra, all’opposizione del governo islamico di Ennahda.  Mohamed Brahmi di 58 anni, mentre era con moglie e figlia per le strade di Tunisi, è stato avvicinato da due uomini in motocicletta, i quali l’hanno crivellato di proiettili sparati da un mitra: sembra che siano stati undici i colpi che hanno raggiunto il dirigente politico.

Subito dopo l’assassinio, avvenuto in mattinata, migliaia di persone si sono riunite davanti la sede del Ministero dell’Interno per protestare. Tra l’altro c’è una inquietante coincidenza simbolica, poiché oggi, 25 luglio, cade l’anniversario dell’indipendenza della Tunisia dalla Francia.

Brahmi è stato fondatore e segretario generale del Movimento del Popolo (Echaâb), partito di opposizione laico e nazionalista, nato dopo la fine della presidenza di Ben Ali nel 2011. Inoltre era anche membro dell’Assemblea Nazionale Costituente, incaricata di scrivere la nuova Costituzione del paese. Per venerdì è stata indetta dal Presidente della costituente una giornata di lutto nazionale.

Dopo l’omicidio di Chokri Belaïd, il leader dell’opposizione, avvenuto il 6 febbraio di quest’anno, adesso un altro grave atto criminoso insanguina il paese, in un momento in cui la situazione sociale, economica e politica è davvero difficile. Anche perché il governo islamico, che ha subito un rimpasto dopo il primo omicidio, è accusato di collaborare con le frange estreme. Tra l’altro queste si sono macchiate di numerosi atti di violenza, tra cui un assalto all’ambasciata americana.

In ballo vi è una costituzione da scrivere, dove si vorrebbero far passare le norme della sharia, cioè la legge islamica, in un paese dove la laicità è una dimensione culturale abbastanza diffusa, simboleggiata dal processo alla blogger Amina. Ma in ballo c’è anche l’impossibilità di onorare la primavera araba, poiché quello che succede in Egitto e in Tunisia è forse la dimostrazione che l’islamismo e il laicismo, nella gestione dei paesi arabi, è inconciliabile.

 

Tutti contro il Presidente

Continuano gli scontri e le proteste contro il Presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, capo del “General People's Congress”,  nelle due città più importanti del paese, Sana'a e Aden: nella prima le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco contro i manifestanti ferendo tre persone, di cui una è morta stamattina, mentre nell’altra città,  gruppi organizzati di oppositori al regime hanno assaltato alcune scuole pubbliche per costringere gli insegnanti a scendere in piazza, tutto tra venerdì scorso e la giornata di ieri. 

Le proteste, sull’onda dei moti tunisini ed egiziani, sono state innescate il 2 febbraio, generate dal tentativo di revisione costituzionale del Presidente, attraverso cui puntava ad ottenere un nuovo mandato oltre la scadenza del 2013, scongiurata dalle sue dichiarazioni successive tese a non ricandidarsi. La settimana seguente è stato organizzato, da parte di un gruppo di giovani, che hanno fatto girare su internet un appello contro il governo,  il loro “venerdì della collera di Aden”.

A leggerla così questa notizia sembra l’ennesima scintilla mediorientale, dove la popolazione non ce la fa più a sopportare una dittatura autocratica, avendo preso coscienza, attraverso la stanza degli echi di internet, che c’è un modo migliore di vivere: la democrazia. Il fatto è che lo Yemen non è la Tunisia  e neanche l’Egitto. Qui le contraddizioni sono abbastanza diverse. Si perché l’esercizio della violenza, negli ultimi trent’anni, non si è quasi mai interrotto. 

La storia del moderno Yemen può essere fatta risalire alla dissoluzione dell’impero ottomano, la quale determina l’azione coloniale della Gran Bretagna. Negli anni ’60 nasce prima la Repubblica Araba dello Yemen, nel nord del paese e poi la Repubblica Popolare  Democratica dello Yemen, il primo regime di stampo marxista del mondo arabo. Tra ribellioni e guerre di vario genere si arriva al 1990 quando l’attuale Presidente da vita alla Repubblica Unificata dallo Yemen. 

Ma la rivalità tra nord e sud rimane il motivo dominante su cui si regge il paese, governato da un Presidente che “accetta” di farsi eleggere solo nel 1999, anche se manca un candidato alternativo. Cosa non del tutto disdicevole per la comunità internazionale, visto che il paese diventa uno dei baluardi della lotta ad al Qaeda condotta dagli Stati Uniti. Ecco perché  gli addestratori dell’esercito yemenita erano proprio militari della Navy Army.

Nel 2004 l’ex vicepresidente Ali Salim al Baid   dichiara l’indipendenza del sud, individuando Aden come suo quartier generale, ma l’esperienza dura un paio di mesi e i secessionisti sono costretti all’esilio. Nel frattempo, nel nord ovest del paese, area in cui è posizionata la capitale Sana'a, scoppia una piccola guerra civile tra l’esercito regolare e gruppi di ribelli sciiti zaidi, i cosiddetti “Giovani Credenti”, guidati da Abdul Malak Al Houti, a quanto si dice, sostenuti dall'Iran, e che vorrebbero un Ayatollah al potere. Un aspetto interessante è che il governo accusa due paesi del mondo arabo di fornire aiuto logistico e militare al gruppo ribelle, uno è l'Iran, e fin qui è comprensibile, l'altro è la Libia, il quale leader si è sempre presentato come oppositore del fondamentalismo islamico.

Si va avanti così fino ad oggi, tra atti di belligeranza e accordi  di pace. Nel 2008 si legge in un rapporto di “Medici Senza Frontiere”: “Msf conferma che non si conosce il numero dei morti e dei feriti e che, tuttavia, l'impiego estensivo di armi pesanti fa pensare che vi siano vittime innocenti tra i civili, che comunque non hanno più accesso alle strutture sanitarie. Peggio di loro stanno i civili sfollati, è l'allarme lanciato dalla Mezzaluna Rossa, che riferisce di 35mila sfollati nella sola provincia di Saada”. 

Vista la situazione, chi sono coloro che in questi giorni stanno in piazza a protestare? Nel nord le opposizioni riguardano due organizzazioni strutturate: partito islamico al-Islah e forum comune, coalizione dei partiti di opposizione, invece nel sud, essendo in esilio i capi secessionisti, sembra più una ribellione spontanea, nata appunto attraverso internet. Una cosa è chiara e cioè che tutti hanno l'obiettivo di abbattere il Presidente. Da un lato gli indipendentisti del sud, la cui città di riferimento è Aden, dall'altro i fondamentalisti, nella cui capitale  Sana'a hanno i loro insediamenti. Sullo sfondo al Qaeda, terribile spettro dell'occidente, che in caso di abbattimento del regime potrebbero realmente entrare in campo.

 

LE RIVOLUZIONI FALLITE

 

Una storia infinita

Erano in 4000 venerdì scorso per le strade di Beirut, in prevalenza giovani, che inveivano contro il regime, chiedendo l’abolizione del sistema di potere. Già, perché la realtà sociale del Libano è qualcosa di estremamente diversa da quella dei paesi autocratici del nord Africa, dove è esplosa la rivolta. In Libano non vi è un dittatore ma un sistema diviso tra diciotto comunità confessionali frammentate tra cristiani e musulmani. Le confessioni cristiane: maronita, greco-ortodossa, greco-cattolica (melchita), armena-apostolica, siriaco-ortodossa, siriaco-cattolica, protestante, copta, assira, caldea, cattolica di rito latino. Le confessioni musulmane: sunnita, sciita, ismailita, alauita e drusa.

Il sistema confessionale è insomma il principio su cui è costruita tutta la società libanese sia dal punto di vista della rappresentanza politica e istituzionale che amministrativa, attraverso quote predeterminate di accesso agli incarichi pubblici in relazione alla rilevanza sociale e demografica di ogni confessione. Questo sistema è stato istituzionalizzato nel 1943, quando la Francia concesse l’indipendenza a quello che era il protettorato del Grande Libano. Attraverso una “Convenzione costituzionale", una sorta di emendamento alla Costituzione del 1926, veniva siglato il “Patto Nazionale”, per cui le più alte cariche dello stato dovevano essere maronita, sunnita e sciita.

Negli ultimi quarant’anni questo sistema di potere è stato al centro del conflitto arabo-israeliano, con una guerra ventennale, iniziata nel ’70 con “Settembre nero”. Al centro di tutto continuano ad esservi le lotte intestine per il potere, dinamica endemica al tessuto sociale, in una repubblica che ha un altissimo numero di giovani scolarizzati, e dove corruzione e disoccupazione sono assiomi del sistema paese.

Il punto sorgente di questa ultima crisi risale al 2005 quando venne ucciso il sunnita Rafiq Hariri, molto amato dal popolo, di cui sembrano responsabili gli sciiti Hezbollah. Il 26 gennaio scorso manifestazioni e scontri con la polizia sono stati innescati a causa della formazione del nuovo governo affidato al Najib Miqati, con una cinquantina di feriti tra cui militari e agenti della polizia. "La giornata della rabbia", così è stata ribattezzata la protesta, ha visto in prima linea i sostenitori del premier uscente Saad Hariri, figlio del leader sunnita ucciso nel 2005, che si oppongono al nuovo primo ministro proprio perchè appoggiato da Hezbollah. E la storia continua...

 

In piazza contro chi?

Il venerdì islamico delle proteste ha raggiunto anche la Giordania. Per le strade di Amman, dove circa 10000 persone hanno sfilato, c’era però un’aria diversa dalle strade insanguinate di altri paesi vicini. Si sentiva infatti il desiderio di un popolo alla ricerca di una vita migliore, la voglia di esprimere il proprio protagonismo come in Tunisia o in Egitto. La differenza però è che ad Amman le rivendicazioni non sembrano assumere una fisionomia ben decifrabile: l’unico elemento percepibile è il sentimento islamico, nel senso riformista del termine.

Innanzitutto c’è da dire che in piazza, come nella precedente manifestazione del 28 gennaio, c’erano tantissimi giovani, studenti e disoccupati, donne col velo e anche senza, anziani e bambini. C’era il Fronte d'azione islamico, organizzazione legata ai Fratelli musulmani, che denunciano la necessità di urgenti riforme politiche ed economiche, come il Movimento comunista. Ma c’erano anche i sostenitori del Re che esponevano la sua icona. 

Ogni pezzo della manifestazione esplicitava una forma di dissenso contro lo status quo, che per alcuni si traduceva nell'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e l'elevato livello di disoccupazione giovanile, il tasso di povertà è al 25 per cento e quello di disoccupazione al 15 per cento, il 70 per cento dei sei milioni di abitanti ha meno di 30 anni. Tra le fila delle organizzazioni più filo palestinesi vi era chi accusava il Re di essere troppo dalla parte di Israele, quindi un’accusa alla politica estera del monarca e non tanto alla sua dimensione autocratica, infatti tra questi c’era chi auspicava una riforma della monarchia in senso costituzionale, ipotesi liquidata dal primo ministro poiché destabilizzante per gli equilibri istituzionali.

C’era poi chi si scagliava contro il governo di Maaruf Bakhit, che ha da poco ricevuto la fiducia del Parlamento. Per altri, invece, la principale fonte dei problemi del paese era nel Parlamento stesso, che non promuove le riforme economiche di cui si avrebbe bisogno. Parlamento a cui lo stesso Re Abdallah II ha chiesto un impegno maggiore dato il momento storico: «Il Parlamento gioca un ruolo chiave per correggere gli errori, accelerare le riforme politiche e socio-economiche globali, e rafforzare la fiducia del popolo nelle istituzioni pubbliche».

La monarchia giordana, nel contesto dei regimi mediorientali, esprime una dinamica di potere non oppressiva come le altre dittature autocratiche, però una cosa non si comprende bene in questa vicenda… Perché se si va ad analizzare il sistema politico giordano si vedrà che le principali leve del potere sono in mano al monarca che nomina il primo ministro, firma le leggi, può porre un veto che può essere superato dai due terzi di entrambe le camere che compongono l'Assemblea Nazionale, nomina e rimuove i giudici per decreto, approva gli emendamenti alla Costituzione, dichiara guerra e comanda le forze armate. Il Parlamento quindi possiede uno scarsissimo potere di controllo sul sovrano.

Se così stanno le cose perché protestare contro il Primo Ministro o il Parlamento e non direttamente contro il sovrano?

 

Impedire ogni forma di assembramento!

In Arabia Saudita la protesta riformatrice non riesce a prendere forma. La situazione nel paese è abbastanza confusa perché la dinastia del sunnita re Abdallah bin Abd al Aziz al Saud, al potere dal 2005 vive comunque una fase di instabilità sia per l’incerta situazione legata alla discendenza dinastica che anche per l’anacronismo storico del suo sistema politico. L’Arabia Saudita è infatti una monarchia assoluta, con un entourage monarchico disgregato composto da ultraottantenni con centinaia di figli a seguito. Nel paese non esistono diritti e libertà, è persino vietato scendere in piazza a protestare. Il monarca è a capo del governo, nomina i 150 membri dell’unica camera del Parlamento. La costituzione è rappresentata dal Corano, non ci sono partiti e non si fanno elezioni, le donne non hanno diritto al voto e non possono prendere neanche la patente.

In un contesto come questo si stanno mobilitando tutti: sunniti, sciiti, intellettuali e soprattutto giovani, che attraverso Faceboock stanno cercando di organizzarsi per scendere in piazza. Le istanze sono semplici: trasformazione della monarchia, separazione dei poteri, elezioni, e garanzia dei diritti civili. Giovedi scorso a Qatif, la minoranza sciita è andata a protestare per richiedere il rilascio di alcuni leader arrestati dalla polizia. Venerdi un tam tam di 30000 persone su internet ha organizzato la giornata della rabbia per le strade della capitale Ryadh, ma già dalle prime ore dell’alba la città era assediata dalle forze dell’ordine, col dispiego di mezzi pesanti ed elicotteri, tanto che ai manifestanti è stato letteralmente impedito di protestare. Alcune organizzazioni per i diritti umani statunitensi hanno accusato il Segretario di Stato Clinton che ha chiesto di garantire il diritto di protesta a tutti i paesi mediorientali tranne che all’Arabia Saudita…

 

Storie mediorientali tra sunniti e sciiti

Ormai è quasi un mese che in Piazza delle Perle, nel centro di Manama, stazionano centinaia di persone, in una sorta di sit-in permanente. "Non ce ne andremo da qui, almeno fino a quando non verranno accordate le riforme!" E' questa l'espressione più ricorrente che i manifestanti urlano a squarciagola. Ma gli scontri con le forze dell'ordine si sono succeduti in queste ore anche in altre parti della città: dal campus universitario al complesso del "Financial Harbour", nel distretto finanziario della città, considerato il principale simbolo della corruzione del regime. Negli ultimi due giorni vi sono stati gli scontri più duri da quando è stata innescata la protesta: una decina di morti, una sessantina di dispersi e centinaia di feriti, fino ad adesso.

La notizia del giorno è che alcuni paesi arabi, riuniti sotto la sigla, del "Consiglio di Cooperazione del Golfo", per smorzare gli animi protestatari sta inviando truppe e armi nel piccolo stato arabo. I paesi che fanno parte di questo organismo sono: Arabia Saudita, che ha già mandato mille soldati, Emirati Arabi Uniti, che dovrebbero inviare squadre di poliziotti, Kuwait, Qatar e Oman. L'opposizione ha nel frattempo dichiarato che la presenza militare straniera non può che essere considerata una vera e propria occupazione. Dal canto loro alcuni parlamentari hanno chiesto l'imposizione del coprifuoco e l'applicazione della legge marziale contro i manifestanti.

Ma come in ogni storia che si rispetti, anche in questa i retroscena caratterizzano un secolo di storia mediorientale, tra intrighi e lotte di potere dove l'occidente, e soprattutto gli Stati Uniti ne sono il perno. Certo, a leggerla approfonditamente la storia del Bahrain, può stimolare tante suggestioni, anche perché è assolutamente legata alla storia degli altri paesi arabi. Partiamo dalla prima. Sullo sfondo c'è una lotta intrareligiosa che dura dalla morte del profeta Mohammed. quando l'identità sunnita prende piede su quella sciita, questo significherà persecuzioni, martiri, guerre fratricide.

Nel 1782 il Bahrain, che fino a quel momento era un insediamento della Persia, con una rivolta in perfetto stile piratesco, si staccava dalla madre patria, e il controllo del paese passava nelle mani del clan sunnita al-Khalifa. Vennero quasi subito siglati accordi commerciali con la Gran Bretagna, in cambio di protezione contro la Persia. Solo nel 1971 venne concessa l'indipendenza, e subito lo Scià Reza Pahlavi si fece avanti per riprendersela. Il clan al-Khalifa, che nel frattempo era diventata una dinastia, questa volta chiese protezione agli Stati Uniti, che fecero del Bahrain il principale punto strategico di tutto il medioriente. Anche perchè nel 1979, con la presa del potere dello sciita ayatollah Khomeyni e della trasformazione della Persia in Iran, il Bahrain viene considerato da questa un proprio possedimento. Ecco che a tal punto gli Stati Uniti decidono di creare una vera e propria base logistica permanente, poiché l'Iran diventa un nemico dell'occidente, e lì si insedia la V Flotta della Marina militare, controllando lo stretto di Hormuz, anche perchè è necessario garantire la salvaguardia del venti per cento delle risorse petrolifere mondiali.

Da un lato vi sono le monarchie dinastiche sunnite che garantiscono gli affari all'occidente, dall'altro i regimi autocratici sciiti come Libano, Siria, Iraq e Iran, nel mezzo il Barhen dove una oligarchia sunnita comanda sul settanta per cento degli abitanti sciiti. Qui c'è infatti il primo paradosso. Perché i sistemi autocratici sciiti non sono certo un esempio di democrazia e rispetto dei diritti umani, ma queste sono le richieste dell'opposizione sciita in Bahrain. Al tempo stesso però gli Stati Uniti, abbastanza silenziosi fino ad adesso, hanno chiesto formalmente al Bahrain di rispettare i diritti dei manifestanti. La domanda è: fino a che punto il gioco delle parti reggerà? 

 

NON ABBIAMO PIU’ PAURA

 

Gli echi risonanti dal web alle strade

Nelle città siriane diventa difficile contare i morti. E’ un vero e proprio bollettino di guerra. Dal venerdì della collera le forze d’assalto siriane ormai conducono una guerra spietata contro la popolazione inerme. Si perché le uniche armi utilizzate dai “ribelli”, fino a questo momento, sono le parole e la rabbia di chi non ce la fa più a vivere senza diritti né libertà.

“Non abbiamo più paura” grida la gente per le strade, mentre i mortai gli sparano addosso. Così, i corpi lasciati per le strade, poiché nessuno ha la possibilità di raccoglierli e seppellirli, danno il senso di una immane tragedia, che fino a questo momento è soltanto stigmatizzata dalla comunità internazionale. Intanto basta camminare per la strada per essere preso di mira dai militari. Nemmeno le autoambulanze non possono circolare poiché anch’esse diventano facili bersagli. Ma la cosa ancora più raccapricciante è che ormai si spara anche dentro le case, questo a significare che non c’è modo di scampare alla mostruosa dittatura siriana di Assad, che adesso accusa la Giordania di essere il promotore degli eventi, motivo per cui è stato chiuso il valico di frontiera, mentre le stragi di Daraa sono state giustificate per impedire la creazione di un emirato islamico salafista.

E’ drammaticamente patetica questa storia dei dittatori nord africani e mediorientali di imputare ai paesi vicini o alle forze internazionali la responsabilità di ordire complotti contro di loro, cercando di restare legati ad un potere che sono destinati a perdere, e questo il prezzo della vita di centinaia di persone, che nel caso della Siria non hanno imbracciato nemmeno le armi per combattere il regime.

In realtà in Siria il movimento di opposizione al regime è assolutamente precedente all'effetto domino che ha colpito negli ultimi mesi i paesi mediorientali. Già dal 2006 era stato creato un giornale on line dal titolo "Syria News", finalizzato a denunciare la corruzione del paese, e dove alcuni blogger avevano costruito uno strutturato sistema di relazione con alcuni dissidenti espatriati. Attraverso il web, questo gruppo di "attivisti informatici" aveva persino avviato una campagna mediante il semplicissimo strumento delle e-mail, per insegnare, a chi si proponeva di diffondere informazioni  contro il regime, come evitare la censura usando i proxy.

Non sembra possibile ma è proprio così. L'effetto moltiplicatore del web ha creato un sistema di circuitazione delle informazioni che sta mettendo in difficoltà il regime al punto da perpetrare massacri indiscriminati. Il simbolo di questo movimento si chiama Rami Nakhle, pseudonimo Malath Aumran, ventottenne laureato in Scienze Politiche ed esperto informatico, costretto in dicembre a rifugiarsi in Libano perché ricercato dai servizi segreti siriani, i quali continuano a dargli la caccia come se fosse un pericoloso agente segreto del controspionaggio. Le sue armi non sono però quelle delle spie che solitamente possiamo vedere nei film di genere, ma semplicemente facebook e twitter.

E' nascosto in un quartiere cristiano di Beirut, dove una cerchia di amici proteggono la sua clandestinità. E' quotidianamente minacciato di morte, sia lui che la sua famiglia, per questo non esce mai dal suo rifugio. Lavora venti ore al giorno al computer tessendo le fila di una guerra telematica di cui è uno dei principali protagonisti. Il suo lavoro è fondamentalmente quello di far circolare le informazioni tra l'esterno e l'interno della Siria, fondamentali per comprendere ciò che succede nelle strade della città, dal numero dei morti alla tipologia delle violenze del regime. Ma egli riesce ad aggirare la censura, mettendo in collegamento gli attivisti sul campo, organizzati attraverso i cosiddetti "comitati". La cosa straordinaria che a questi comitati partecipano insieme, uniti nella lotta, sia cristiani che musulmani, i quali trovano nella pagina di facebook "Syrian Revolution 2011", con 120 mila fan, il luogo di incontro, ma anche di elaborazione politica, della protesta.

 

La rivoluzione e la resa dei conti

Ormai le notizie sulla situazione in Siria si succedono in modo incessane. Sono 150, allo stato attuale, i morti sul campo. E' di oggi la notizia che la cità di Daraa è stata accerchiata dai carri armati del regime. Durante l'ultimo venerdi della collera, che ormai sembra diventato un vero e proprio rituale rivoluzionario arabo, ribattezzato nella versione siriana in "Venerdì della Dignità", sono morte 13 persone. Oltre che a Daraa, in varie città si è combattuto: da Damasco fino ad Hama, diventata città simbolo per la repressione nel sangue da parte del padre dell'attuale presidente nei confronti di una rivolta dei Fratelli musulmani, era il 1982.

Ma forse il momento che meglio fotografa questa rivoluzione e questa autocrazia è stato l'arresto di una intera scolaresca di bambini che intonavano canti contro il potere costituito. Si, perchè la Siria è uno dei paesi più duri, dal punto di vista delle garanzie di cittadinanza più elementari. E lì infatti che è ancora in vigore una "legge di emergenza" che dura da quarant'anni e che vieta tutto: dalla libertà di riunione e di espressione, alla libertà di partecipazione politica. Il partito Bath, organizzazione dell'islamismo sciita, è l'unico partito ammesso.

Ma se il Potere in Siria è personificato dalla dinastia degli Assad, della città di Latakia, roccaforte degli sciiti alawiti, nella realtà è sostenuto dall'esercito, che ha un peso straordinario nella gestione del Potere, ed è sunnita, come la maggioranza del popolo, che in questo momento si sta ribellando. In effetti quando nel 2000 il giovane Assad andò al potere, si racconta che lo fece suo malgrado, poichè in seguito agli studi in Europa, aveva immaginato la sua vita in un modo diverso. Forse per questo si parlò di una nuova era riformatrice per la Siria. Ma così non fu: si guadagnò invece il titolo di stato canaglia da Bush figlio.

Certo è che tutto quello che sta succedendo in Siria ha un peso assai diverso nel contesto delle rivoluzioni mediorientali, non foss'altro per l'importanza che ha questo paese nello scacchiere arabo: da sempre principale nemico di Israele, sia per i possedimenti contesi del Golan, che per il tema relativo alla causa palestinese. Per queste ragioni la Siria è il principale alleato di Hamas e di Hezbollah e per queste ragioni è sempre stato uno dei paesi più pericolosi e belligeranti dell'area.

Intanto il giovane Assad annuncia grandi riforme, la repressione continua ma lui annuncia l'abolizione della legge di emergenza, annuncia un nuovo governo, annuncia che mercoledi farà un discorso alla nazione. Ma forse, questa volta, la rivoluzione del popolo sta per innescare la resa dei conti tra le oligarchie medirientali che negli ultimi quarant'anni si sono combattute. 

 

La nuova pulizia etnica

I rapporti delle organizzazioni internazionali sugli orrori della guerra siriana, da Save the children” all’UNHCR dell’Onu, rivelano un retroscena sconcertante, a partire dal bilancio dei profughi: ormai sono più di mezzo milione tra quelli già registrati a quelli in attesa di registrazione. Libano, Giordania, Iraq, Turchia e Nord Africa sono queste le aree limitrofe dove sono sorti i campi, che però hanno accolto soltanto il 40 per cento di chi si è messo in fuga, la maggior parte ha trovato riparo in abitazioni prese in affitto, famiglie d’accoglienza o centri collettivi. I numeri dicono che 509.559 sono in questo momento i rifugiati, dei quali 425.160 già registrati e 84.399 in attesa di completare la procedura.

Ma la fotografia numerica e logistica dei rifugiati siriani è soltanto uno degli elementi su cui indignarsi, perché dai racconti che sono stati raccolti, soprattutto dei minori, quello che sta succedendo in Siria è una nuova guerra costruita sulla pulizia etnica. Da un lato vi sono le milizie paramilitari filo-governative alwite, l’etnia del presidente Bashar al Assad, che stanno massacrando il popolo siriano di etnia sunnita. Ma non mancano episodi di crimini commessi dai ribelli sunniti contro la popolazione alawita, anche contro bambini.

I metodi per torturare i bambini da parte delle milizie filo-governative sono stati di vario tipo: appesi per le mani e massacrati di botte, oppure sigarette spente sul corpo, o ancora lasciarli per giorni in piedi, senza bere ne mangiare. Teste fracassate da balaustre di cemento, corpi come scudi umani, cadaveri mangiati dai cani. Quasi tutti hanno assistito alla morte di padri, madri, fratelli e sorelle. Non è il museo degli orrori è la realtà, per questo forse sarebbe il caso averne coscienza…

 

La dottrina della linea rossa nel labirinto dei segni

Secondo l’ONU la guerra civile in Siria rappresenta la peggiore crisi del ventunesimo secolo, e i numeri parlano chiaro: centomila morti, tra eserciti in campo e popolazione inerme, tra cui ovviamente donne e bambini. Due milioni di profughi in paesi esteri limitrofi: prevalentemente Libano, Giordania, Turchia e Iraq, tra questi ci sono coloro che arrivano con i barconi sulle spiagge siciliane e calabresi. Quattro milioni di profughi ancora interni alla Siria, che poi rappresentano un quarto della popolazione, che conta ventuno milioni di abitanti.

Ma queste cifre non raccontano fino in fondo l’atrocità di questa guerra civile, documentata dalle immagini che una fitta rete di video maker improvvisati, grazie ai cellulari, è riuscita a registrare e a mandare alle “teste di ponte” di questo movimento di liberazione, che ha le sue postazioni in Libano e Turchia. Qui un'altra rete di dissidenti, “Freedom 4566”, finanziati da cittadini siriani che vivono all’estero, ha costruito un sistema di raccolta di questi materiali video, che mette su You Tube, ma non solo. Fa anche da fonte ai media di massa, come una vera e potente agenzia di stampa, proponendosi come raccordo per l’organizzazione di interviste ai ribelli sul campo.

Nella prima fase, quella delle proteste di piazza, diventavano emittenti attraverso i social network, riuscendo ad organizzare le manifestazioni di massa e di protesta. E questo è stato reso possibile grazie al fatto che il movimento di liberazione in Siria non è nato durante la primavera araba ma almeno un anno prima, grazie a questa rete di dissidenti che hanno lavorato per la circolazione delle informazioni e delle immagini. Torture, violenze inaudite contro la popolazione, massacri pianificati, diritti umani calpestati, bambini vittime di pulizia etnica, c’è di tutto su You Tube per far finta di non sapere…

Attraverso la rete questi giovani professionisti della comunicazione hanno cercato di compensare i limiti del sistema mediatico tradizionale, nel far luce sulle atrocità di un dittatore contro il suo popolo. Ed è forse l’esempio più alto di citizen journalism che attraverso la rete sta cambiando i processi produttivi dell’informazione. Sono quelli che McLuhan definiva “gli echi risonanti”, riferendosi alla capacità del mezzo radiofonico, inteso come stanza degli echi, di trasformarsi in una sorta di tam tam da villaggio antico, i cui suoni venivano riconosciuti dai membri della tribù in qualsiasi parte della foresta essi si trovassero, creando un richiamo identitario oltre che informativo. Così i social network sono diventate stanze degli echi, ed il web ha diffuso gli echi risonanti, che hanno assunto dimensioni identitarie per l’interno ed informative per l’esterno.

Se all’inizio le armi della ribellione erano, appunto, concentrate sulla circolazione delle informazioni e le manifestazione di protesta erano libere e non violente, quando il regime di Assad ha cominciato a massacrare le persone che protestavano pacificamente, la ribellione si è organizzata militarmente, soprattutto grazie alle armi provenienti dagli Stati Uniti e dai paesi arabi come l’Arabia Saudita, e agli addestramenti finalizzati a trasformare i ribelli in guerrieri. Poi successe qualcosa… Verso la metà del 2012, quando la campagna elettorale americana aveva già i suoi candidati ufficiali, cioè Obama contro Romney, il presidente in carica fece un annuncio: “Se il governo siriano utilizzerà le armi chimiche durante la guerra civile, questo significa superare la linea rossa”. Quindi superando la linea rossa l’intervento statunitense non poteva essere impedito.

Nel maggio del 2013 avviene un fatto strano, e cioè che il rifornimento di armi e di addestratori viene interrotto dagli Stati Uniti, secondo almeno fonti di intelligence giordana. La domanda da porsi, lecitamente, è perché? Il 21 agosto scoppiava il fattaccio! Quasi cinquecento persone, secondo Medici Senza Frontiere, che abitavano in alcuni centri a sud e a est di Damasco, morivano intossicati dal gas sarin, lanciato dall’esercito del regime siriano.

Ecco che inizia il balletto di conferme e smentite, con i documenti filmati che hanno registrato la realtà e la testimonianza dei medici che hanno dato i soccorsi a uomini, donne e bambini con la bava alla bocca. I paesi partner della Siria, come la Russia, vogliono le prove, e alla fine propongono un piano concreto per mettere l'arsenale chimico sotto controllo internazionale. Mentre gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna dicono che le prove ci sono e consultano i loro parlamenti per avere il benestare all’attacco finale, il quale, si badi bene, non è finalizzato alla defenestrazione del dittatore ma a smantellare le armi chimiche. Intanto dei rappresentati delle Nazioni Unite sono stati mandati in loco per raccogliere le informazioni e verificare se esistono le prove. I parlamenti nel frattempo si schierano contro i loro presidenti, poiché viene chiesta a gran voce che sia l’Onu a pronunciarsi sull’attacco, ma questo non potrà mai succedere, poiché la Russia pone il suo veto.

L’ennesimo mistero smarrito nel labirinto dei segni della civiltà alfabeta, che ha ribaltato i suoi significati, ripropone una civiltà in perpetua entropia, dove diventa impossibile la comprensione. Innanzitutto l’affermazione secondo la quale non si può stare a guardare quando donne e bambini muoiono tra spasimi muscolari è un po’ incomprensibile, poiché questo presupporrebbe che se donne e bambini venissero massacrati con armi convenzionali allora si potrebbe restare a guardare… Quindi il mancato rispetto dei diritti umani, i massacri indiscriminati, le torture e tutto il corredo infernale di una guerra come questa diventa lecito poiché la linea rossa non è stata varcata… Da viaggiatori perduti nel labirinto dei segni, ci sembra di comprendere questo dalle parole dei capi di stato e di governo…

Se le parole hanno un peso, queste sono pesanti come macigni, ma visto che le parole sono segni, proviamo a reinterpretarle. Cioè a dire, partendo dal presupposto che la dottrina della linea rossa così come è stata elaborata da Obama non ha senso rispetto ai valori della civiltà alfabeta, di cui egli stesso è un indefesso difensore, quali sono le vere ragioni che impongono l’intervento americano? Ovviamente, a questa domanda non è possibile rispondere in modo plausibile, però delle proiezioni si possono fare. Ad esempio: e se fosse vera l’idea di Papa Francesco secondo il quale dietro l’intervento americano si nascondono motivi commerciali, legati al business della vendita di armi? Del resto, in questo senso, la politica estera americana non si può differenziare, per statuto, a prescindere da chi ci possa essere alla presidenza, se un democratico o un repubblicano.

Le guerre agli Stati Uniti hanno sempre fatto comodo, e questa è storia contemporanea. In tal modo si spiegherebbe perché l’amministrazione di Obama ha interrotto il flusso di armi e addestratori ai ribelli siriani. Anche perché la motivazione elaborata da alcuni osservatori è un po’ debole se ci si addentra nei fatti: “il fronte dei ribelli è assolutamente variegato e frastagliato, e all’interno di questi gruppi ci sono diverse frange jiadiste, legate al al-Qaeda, come il fantomatico esercito dello stato islamico dell’Iraq e del levante”.  

In una interessante inchiesta del Wall Streat Journal, giornale statunitense di tradizioni repubblicane, Elizabeth O’Bagy, un analista dell’Institute for the study of war di Washington, sovverte questa analisi. Trascorrendo parecchio tempo tra le fila dei ribelli dell’ESL, Esercito siriano libero, ha potuto registrare come in realtà la situazione tra le fila dei ribelli sia abbastanza chiara, poiché l’ESL è un movimento moderato, che ha isolato i gruppi jiadisti, i quali operano in zone distinte, dal punto di vista territoriale. Anche perché gli obiettivi dei jiadisti non sono quelli di abbattere Assad ma, a quanto dice la giornalista americana, quello di costituire una sorta di emirato islamico nel nord del paese.

L’intelligence americana non sarebbe, dunque, in grado di gestire i ribelli e isolare gli estremisti in un contesto come questo? Dato che le altre rivoluzioni arabe hanno visto il prevalere di partiti islamici, i quali hanno voluto imporre la sharia nelle costituzioni, non sarebbe auspicabile, per le cosiddette democrazie occidentali, organizzare al meglio le file delle organizzazioni ribelli, per gestire meglio il dopo?

 

E ADESSO NO FLY ZONE

 

A parti invertite

Gli insorti della città di Brega, ieri, sono riusciti a respingere un attacco aereo delle truppe fedeli a Gheddafi, a circa due chilometri dal terminal petrolifero. Intanto sono state attivate le misure contro il regime da parte della comunità internazionale: blocco dei beni della famiglia Gheddafi, embargo delle armi, deferimento al tribunale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità. Gli Stati Uniti hanno inviato tre navi da guerra posizionate a 50 miglia dalle coste libiche. L’aeronautica militare è stata autorizzata dalla Casa Bianca a procedere all’evacuazione dei profughi. Barak Obama ha intimato il leader libico di abbandonare il potere, lasciando intendere di essere pronti ad un intervento militare: “L’America deve stare dalla parte giusta della storia, con la democrazia e la libertà.” Ha dichiarato il Presidente degli Stati Uniti. Continua però a non essere chiara la posizione americana sulla no-fly zone, auspicata inizialmente dalla Clinton e sconsigliata poi dai vertici militari, poiché essa presupporrebbe un intervento militare che, rispetto al dispiego di forze, gli Stati Uniti, in questo momento, non sembra che possano sostenere.

Nel frattempo, sempre in mattinata, ma da un’altra parte del continente africano, nell’area sub sahariana, un centinaio di donne scendevano in piazza contro il Presidente golpista della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo. La manifestazione si svolgeva a Abobo, un quartiere a nord della capitale economica Abidjan, dove risiedono tantissimi sostenitori del Presidente regolarmente eletto pochi mesi fa Alassane Ouattara, riconosciuto tale dalla comunità internazionale. Immediatamente interveniva l’esercito, rimasto fedele a Gbagbo, sparando sulla folla, uccidendo sei donne e lasciandone parecchie decine per terra, gravemente ferite. Salgono così a cinquanta le vittime nell’ultima settimana e a 365 dal 28 novembre scorso, cioè da quando il presidente uscente, con un colpo di mano, si rifiutava di riconoscere il risultato che lo vedeva sconfitto, continuando a prolungare una situazione di guerra civile, che tra alti e bassi continua dal 2002. A questi numeri si aggiunga la situazione dei profughi: cinquemila persone al giorno attraversano il confine con la Liberia. Allo stato attuale se ne contano 70 mila, ai quali si devono aggiungere 40 mila sfollati entro i confini nazionali. Una vera e propria crisi umanitaria per la situazione disastrosa dal punto di vista economico, sociale e sanitario. 

Ma cosa differenzia il primo evento dal secondo? Le differenze che si possono rintracciare sono in qualche modo la chiave di lettura dell’instabilità secolarizzata del continente africano. Nel primo caso, la follia di Gheddafi, che sta mietendo morti e distruzioni immani nel suo paese, è monitorata dagli Stai Uniti, dall’Onu e dall’Unione Europea, pressappoco in questo ordine di rilevanza, al punto che in nome della democrazia e libertà si è deciso che il leader libico ha i giorni contati. Ricordiamoci che la Libia è uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo.

Nel secondo caso la follia di Gbagbo, non altrettanto famoso come il rais, che in dieci anni ha martoriato il paese con morti, massacri, turpi atrocità tribali, e che a tutti i costi non vuole ancora lasciare il comando, non è monitorata da nessuno, se non da un gruppo di caschi blu dell’Onu che difendono l’hotel di Abidjan, dove da tre mesi è asserragliato il Presidente regolarmente eletto. Ricordiamoci che la Costa d’Avorio è uno dei principali produttori di cacao del mondo.

Proviamo ad invertire le parti... Cioè a dire: Quali sarebbero le attenzioni degli Stati Uniti e della comunità internazionale se la Libia fosse uno dei maggiori produttori di cacao e la Costa d’Avorio fosse uno dei principali produttori di petrolio?

 

Gli intrighi internazionali e la caduta di Bengasi

Dunque ci siamo, ancora poche ore e Bengasi, la città più importante della Cirenaica, quartier generale della resistenza libica, dov'è insediato il "Consiglio Nazionale", cadrà sotto il fuoco delle milizie di Gheddafi, e anche questa volta si assiste alla solita "messa in scena" della comunità internazionale, nelle sue varie sedi istituzionali, costruita sull'immobilismo. Anche questa volta la trama sembra già scritta, come altre volte nella storia recente: dalla pulizia etnica nell'ex Jugoslavia al milione di morti in Ruanda. Anche questa volta si ripete il "gioco delle parti", estenuante e insopportabile perché fatto sulla pelle della gente. Sono giovani studenti, intellettuali, disoccupati, lavoratori stanchi di vivere sotto una dittatura, che agognano una vita normale, in una società garantita dalla democrazia. Sono questi che hanno imbracciato le armi contro il despota e stanno aspettando di essere massacrati dalla sua ira. Entro la mezzanotte di oggi si dovrebbe sapere se il Consiglio di Sicurezza dell'ONU deciderà se intervenire con la No-Fly Zone, che significa la protezione di uno spazio aereo che garantirebbe nei fatti la prosecuzione della resistenza libica al dittatore. La vogliono Francia, Gran Bretagna, Libano, la Lega Araba e dopo tanti tentennamenti gli Stati Uniti, sono contrari Russia e Cina, che potrebbero fare affari in futuro con Gheddafi.

Ma vediamole queste maschere teatrali come hanno recitato le loro parti. Gli Stati Uniti innanzitutto, che già dalle prime ore intimavano il leader libico di lasciare il potere, e se ciò non fosse accaduto qualsiasi azione poteva essere presa in considerazione per mettere fine al regime. L'ONU, attraverso una sua risoluzione, dichiarava Gheddafi fuori legge per crimini contro l'umanità, mentre alcuni paesi chiedevano alla Corte dell'Aja l'istruzione di un processo. Poi, il blocco dei beni della famiglia e il valzer delle sanzioni. Già le sanzioni. Atto dovuto da parte della comunità internazionale, ma di scarso peso.

Nel frattempo gli Stati Uniti continuavano a fare proclami contro il regime libico indietreggiando però sulla No-Fly Zone. Si faceva avanti la Francia, proponendo da sola di bombardare la Libia. Annunciava di riconoscere il Consiglio Nazionale come governo provvisorio libico, unico paese a fare questo atto, dopo la sollecitazione del Parlamento Europeo. Non si capisce bene il motivo dell'intraprendenza francese nel contesto dell'immobilismo internazionale, manda a dire la famiglia Gheddafi dalle tre stazioni televisive che inondano di propaganda l'etere. Sembra, a quanto dice Saif, il figlio secondogenito del despota, che la famiglia abbia pagato la campagna presidenziale di Sarkozy, cosa dimostrabile attraverso i bonifici erogati. Puzza di intrigo dunque... E poi c'è l'Italia, che dice di allinearsi alle decisioni della comunità internazionale, ma la sua posizione ufficiale è quella di aspettare che le sanzioni contro l'ex amico Gheddafi portino dei risultati.

Intanto si prepara la carneficina. I miliziani sono a Misurata dove hanno accerchiato la città ma ancora, nel momento in cui scriviamo, non riescono ad espugnarla: solo questione di ore. Centosettanta chilometri per arrivare a Bengasi, dove sembra che, grazie all'apporto di due ex generali, i partigiani libici si stanno riorganizzando. Lo squilibrio delle forze in campo è però evidente. Allo stato attuale il controllo del pezzo di costa che va da Tobruk a Bengasi, vicino al confine con l'Egitto, è ancora nelle mani dei rivoltosi.

E' quindi lì che si decideranno le sorti della guerra civile, rispetto a quanto tempo riusciranno a resistere. Perché si preannuncia una strage, quando la famiglia Gheddafi riavrà il controllo dell'intero paese. E' sempre Saif che parla: "Non avremo pietà con chi troveremo con le armi in mano..." Per i partigiani libici non rimane che il mare e l'Egitto come uniche due vie di fuga, l'altra possibilità è il martirio...

 

Hanno attaccato!

Ci siamo dunque, la resa dei conti ha inizio. Alle 17,45 dei caccia francesi hanno bombardato un blindato delle forze lealiste di Gheddafi.

Stamattina Bengasi era stata accerchiata dalle milizie, i bombardamenti sono iniziati alle sei del mattino e si continua a combattere nella periferia sud. Una città spettrale, spaventata, dove alcuni rimangono a combattere e tanti altri fuggono per salvarsi la vita. Intanto nelle prime ore del pomeriggio numerosi caccia «Rafale» francesi hanno iniziato a sorvolare la città, gli stessi che la Francia ha cercato di vendere a Gheddafi solo due anni fa. Queste ricognizioni sono iniziate pochi minuti prima che il Presidente Sarkozy, che ha ospitato il summit della "coalizione dei volenterosi", riunitosi in seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU sulla No-fly Zone, pronunciasse "la dichiarazione di guerra" a Gheddafi.

"Il popolo libico – ha sottolineato il Presidente francese – vuole scegliere il proprio destino e adesso è in pericolo. Noi non vogliamo decidere per loro, vogliamo proteggere la pololazione. Vogliamo permettere al popolo libico di scegliere il proprio destino. Le porte della diplomazia – conclude Sarkozy – si riapriranno quando finiranno gli attacchi alla popolazione".

Ieri Gheddafi annunciava un falso cessate il fuoco, a cui nessuno ha creduto, poi inveiva contro i ribelli "assoldati da al-Qaeda", nel frattempo mandava una lettera ad Obama dove gli spiegava di essere l'unico vero oppositore del terrorismo islamico, e per non farsi mancare niente minacciava gli europei di bombardare il mediterraneo. Dall'altra parte si iniziava a pianificare l'intervento armato sulle coste della Libia. La sesta flotta statunitense veniva allertata insieme alle basi di Sigonella e Trapani. L'Italia, attraverso la voce del ministro della Difesa annunciava di mettere a disposizione oltre che le basi anche mezzi e uomini, smentendo le parole del ministro degli Esteri di qualche giorno fa.

Allo stato attuale non si capisce però come l'intervento militare possa essere attuato. La Francia non vuole un comando NATO perchè inviso, a quanto dice l''Eliseo, ai paesi arabi, i quali hanno partecipato al gruppo dei volenterosi solo come Lega Araba e non come Unione Araba. Gli esperti di strategie militari dicono che ormai è troppo tardi per impedire al despota libico di riprendersi il paese, visto che la guerra si combatte principalmente sul piano terrestre, dove i lealisti hanno facilmente il controllo a causa della debolissima resistenza dei ribelli. Quindi per defenestrare Gheddafi occorrerà una strategia sul territorio, cosa che la risoluzione ONU non permette.

Facciamo delle ipotesi sugli interessi in gioco: Russia e Cina si sono astenute sul voto del Consiglio di sicurezza per poter facilmente avere mano libera sul petrolio con Gheddafi, la Germania si è anch'essa astenuta per non entrare nel gioco bellico. Dal canto suo la Francia, che ha orchestrato tutta la campagna bellica, unico a riconoscere il governo provvisorio di Bengasi, potrebbe avere velleità di fare affari d'oro col petrolio dopo Gheddafi, mentre l'Italia, cambia versione un giorno si e l'altro pure, per non restare fuori dal gioco nel caso in cui Gheddafi non dovesse farcela, mentre il suo ministro dell'Interno non riesce a dormire la notte pensando agli sbarchi a Lampedusa, dove continuano ad arrivare persone e le autorità italiane continuano a non saper gestire la situazione. Ma questa, come direbbe qualcuno, è un'altra storia...

 

Il gioco delle ipocrisia

Da quando è iniziato l'attacco in Libia da parte di alcuni paesi dell'occidente, in seguito alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, è iniziato il solito gioco delle ipocrisie. Da un lato i governi occidentali, che dopo un mese di massacri dei civili libici si sono decisi ad intervenire, con la motivazione ufficiale di difendere la popolazione inerme, mentre nella realtà c'è la gara a posizionarsi sul mercato petrolifero per chi deve essere il principale partner economico della Libia dopo Gheddafi.

La Francia che per prima ha spinto l'intervento militare ha ben chiaro i propri obiettivi insieme alla Gran Bretagna: togliere di mezzo Gheddafi a prescindere dall'ONU e dalla NATO. La Russia e la Cina aveva già assaporato l'idea di fare affari con Gheddafi. L'Italia ha una posizione diversa ogni qual volta un suo ministro apre bocca, ma dopo le parole chiarificatrici di La Russa, che ha chiaramente detto che loro dopo vogliono esserci, si è capito che inseguono Francia e Gran Bretagna per i futuri affari. Gli Stati Uniti appoggiano i partner europei nei loro obiettivi economici, questa volta senza smanie di leadership.

Dall'altro lato vi sono i "pacifisti dogmatici", che a prescindere da ogni cosa, non possono che essere contro ogni bombardamento, approccio condivisibile in linea teorica, ma quando si applicano in modo sistematico forme di genocidi contro le popolazioni, non sarebbe il caso di interrogarsi sui propri dogmi? Come si fa a dire "Ne con le bombe né con Gheddafi, ma con la diplomazia". Quale azione diplomatica può fermare un criminale che ha assoldato degli spietati mercenari per massacrare il proprio popolo? Perché lui il potere non lo vuole proprio lasciare...

Abbiamo ancora, per chi ha ricordi e sensibilità, in mente quel milione di corpi squarciati dai macete e dalle mitragliatrici in Ruanda una qundicina di anni fa. Lì nessuno fece niente, lì nessuno disse niente, nè i guerrafondai per fare affari, in Ruanda non c'era il petrolio, né i pacifisti dogmatici, che dei massacri sistematici che vengono compiuti tutti i giorni in paesi come la Costa d'Avorio, il Congo, la Nigeria, il Camerun, non hanno interesse ad occuparsi.

Noi vogliamo aggiungere solo una cosa: se in Libia le forze internazionali fossero intervenute subito dopo i primi massacri dei mercenari, forse le cose sarebbero andate diversamente, e ci saremmo evitati anche il balletto delle ipocrisie. Ma la storia ci dice che le cose non possono andare come dovrebbero...