IL NEOTRIBALISMO NELL'ERA DEL GLOBALISMO

 

I GIORNI DELL’ORRORE

 

La guerra infinita

Sta per ricominciare, o forse è già cominciata, l’ennesima guerra tra Israeliani e palestinesi. I bombardamenti di Gaza hanno prodotto, fino a questo momento, 15  morti tra cui 3 bambini, mentre i feriti sono circa 150, tra cui 20 donne e 15 bambini. Alcuni di questi sono in condizioni gravissime, e come al solito quando vi è un conflitto bellico nelle aree depresse del mondo, sta per scoppiare l’ennesimo caso umanitario, come denuncia la Mezzaluna rossa, poiché mancano i sacchetti di plastica sterilizzati per le trasfusioni di sangue.

Mentre sulla striscia di Gaza i raid continuavano incessanti, i miliziani palestinesi hanno ripreso a colpire alcune città israeliane del sud con un centinaio di missili, provocando tre vittime civili. Dalle tre del mattino ore italiane, le 21,00 negli Stati Uniti, sono ritornati in campo i soliti “giochi delle parti” a livello diplomatico. Ban ki-moon chiama Netanyahu mostrandogli la sua preoccupazione. L’ANP denuncia all’ONU gli attacchi inumani di Israele. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite convoca una riunione d’urgenza, alla fine della quale non viene emesso nessun comunicato ufficiale, solo il Presidente di turno, l’indiano Hardeep Singh Puri, afferma un generico: “la violenza deve cessare”. Nel frattempo Obama telefona al Presidente egiziano Morsi condannando il lancio di missili da Gaza verso Israele e sottolineando il suo diritto all’autodifesa. Il Presidente egiziano in televisione dichiara invece che l’aggressione su Gaza rappresenta l’instabilità per l’intera regione.

Già dalla notte si propagava sulla striscia la sindrome della guerra, con i benzinai e le panetterie prese d’assalto. In mattinata Marwan Issa, vice capo di stato maggiore di Hamas, veniva nominato capo dell'esercito, al posto di Ahmed Jaabari, ucciso ieri nel corso di un attacco aereo israeliano, e migliaia di palestinesi, sfidando i raid aerei, partecipavano al funerale del militare colpito, mentre dal cielo piovevano volantini dove le forze armate israeliane invitavano la cittadinanza a tenersi lontana dalle installazioni di Hamas, come dai loro rappresentanti, per una questione di sicurezza personale. Si ricomincia, dunque…

 

Vecchie dispute e nuovi rancori

In medioriente vecchie dispute si sono riaperte, accompagnate da nuovi rancori, in un crescendo di giochi a scacchi di carattere diplomatico, che fanno tornare alla mente antichi fotogrammi. Ma prima di ogni cosa ci sono le vittime, prevalentemente civili, che continuano ad aumentare. Innanzitutto la stima di venti mesi di guerra civile siriana, elaborata dall'Osservatorio siriano dei diritti dell'uomo, ong degli insorti con base in Gran Bretagna: 39.112 morti dal 15 marzo 2011, di cui almeno 27.410 civili. I soldati uccisi sono 9.800, i disertori 1.359, mentre 543 morti non sono stati identificati. Il bilancio secondo la Ong non comprende le persone sparite in detenzione o uccise dalle milizie pro-regime.

Tra ieri e mercoledì i caduti sul campo di battaglia sono un centinaio, mentre il cuore della guerra si sposta sempre di più al confine con al Turchia, e il livello della tensione tra i due paesi si alza notevolmente. Ecco, questo è il nuovo rancore che si è sviluppato nell’ultimo anno, ma che negli ultimi giorni si è acutizzato, in seguito al colpo di mortaio lanciato dall’esercito siriano in terra turca, proprio alla frontiera, nella cittadina di Akcakale, uccidendo una donna con i suoi quattro figli, e facendo altri nove feriti. Non sono bastate le scuse di Damasco per impedire che il Premier Erdogan si facesse approvare dal Parlamento turco una mozione dove si autorizza l’uso della forza in caso di necessità, anche perché l’esercito turco rispondeva al fuoco uccidendo cinque militari siriani, ferendone altri quindici.

Nel frattempo la diplomazia internazionale si muoveva all’unisono per stigmatizzare il presunto attacco siriano alla Turchia. La Nato, oltre che stigmatizzare, ventilava la possibilità di far valere l’articolo 5 del proprio statuto, che prevede l’assistenza ad un paese membro minacciato. Obama chiedeva nel frattempo che tutti i paesi responsabili ponessero la questione della resa di Assad, così l'Alto rappresentante Ue per la Politica estera e la sicurezza, Chaterine Ashton, esprimeva al ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu la sua solidarietà e le condoglianze per le vittime del bombardamento, chiedendo la fine delle ostilità in Siria e la resa di Assad. Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon invitava il governo siriano a rispettare pienamente l'integrità territoriale dei Paesi vicini, e a «porre fine alla violenza contro la popolazione». E Assad cosa faceva? Annunciava per “tranquillizzare” la Comunità internazionale, un’inchiesta interna per scoprire i responsabili dell’accaduto. Qualche giorno dopo la Turchia e la Francia riconoscono ufficialmente la coalizione dell’opposizione siriana in esilio, come unico rappresentante del popolo.

Ma ecco che si ripresenta lo spettro di un vecchio rancore che ricorda il Kippur. Il conflitto siriano si sposta sulle alture del Golan, nell’area demilitarizzata proprio al confine con Israele, il bilancio delle vittime è stato di trenta morti tra ribelli e lealisti. Il vice-premier israeliano Moshe Yalon si premurava a minacciare la Siria di essere pronta a difendere militarmente la propria sovranità territoriale.

Ma lo spettro molto più terribile riguarda proprio la ripresa delle ostilità tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, con due immagini forti: la prima riguarda la martoriata striscia di Gaza con i razzi che arrivano in mezzo alla popolazione, la seconda e l’allarme a Tel Aviv, con la riapertura dei rifugi per la popolazione, cosa che non avveniva dalla prima guerra del Golfo, nel ’91. Un evento come questo può preannunciare che la guerra è davvero ripresa. Anche perché se gli Stati Uniti, si schierano con Israele ma chiedono all’Egitto di intervenire per mettere fine al conflitto, e quest’ultimo dichiara che gli attacchi su Gaza sono da considerare un’aggressione, significa che la situazione si è già impantanata. In questo contesto in Israele in gennaio ci sono le elezioni politiche che la destra si appresta ad affrontare con difficoltà rispetto al consenso popolare, e una guerra potrebbe rimettere al proprio posto le cose, almeno a sentire le analisi di qualche osservatore…

 

Tra Gaza e San Paolo

“Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l'orrore. L'orrore ha un volto e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici...”

Queste parole sono del colonnello Kurtz, nel celebre film di Coppola Apocalypse Now, che racconta, nella sua essenza più profonda, il senso della guerra del Vietnam: “il mio film – diceva il regista – non parla del Vietnam, il mio film è il Vietnam.” Da allora l’orrore è stata una costante nei fatti del mondo, come anche il terrore morale. Ambedue sono nemici del nostro tempo: chi non ricorda l’ex Jugoslavia o il Ruanda, sono immagini indelebili scolpite nella memoria collettiva poiché fotografate dai media di massa. Accanto a queste ci sono orrori però che i media non “fotografano” e per questo forse non sono nemici da temere, come ad esempio gli scempi umanitari dei governi autocratici africani con cui l’occidente ha fatto affari e continua a farli, anche dopo le primavere arabe.

In questi giorni due orrori si stanno consumando sotto gli occhi del mondo, uno fotografato dai media globalizzati l’altro meno: Gaza e São Paulo do Brazil. Ma cosa hanno in comune questi due luoghi così diversi? Secondo il rapporto dell’Unicef, la guerra missilistica israeliano-palestinese, dal 14 novembre fino alle 15,00 ora italiana del 19 novembre, a Gaza ha provocato la morte di 18 bambini, mentre 252 sono rimasti feriti. Numerosi bambini compaiono anche tra i feriti nelle file israeliane. A Gaza gli ospedali sono senza scorte di farmaci. La chiusura del confine a karem Shalom sta per provocare l’esaurimento del carburante. Le poverissime infrastrutture palestinesi stanno per essere completamente devastate. Penuria di acqua per i danni agli acquedotti e pozzi, mancanza di energia elettrica, scuole lesionate e ovviamente chiuse. Fino ad adesso solo gli ospedali si sono salvati.

Dall’altra parte del mondo, proprio ieri, mentre Gaza veniva devastata, l’agenzia Ansa pubblicava una notizia relativa ad un rapporto di un ente brasiliano “Avante Brasil”, il quale, incrociando i dati del ministero della Salute brasiliano e dell’ONU, rileva che in Brasile viene assassinata una persona ogni 9 minuti e 48 secondi, salendo in cima alla lista delle maggiori economie del mondo. Sempre ieri, il quotidiano Folha de São Paulo, pubblicava un servizio sui morti ammazzati in città: 13 persone uccise, tra cui degli adolescenti tra i 14 e i 16 anni, e 10 ferite in una sola notte, 140 uccise nelle ultime due settimane, 144 nel mese di settembre, 982 nei primi nove mesi del 2012. In pratica a San Paolo in questo momento vi è una guerra in corso per i proventi del narcotraffico tra polizia, organizzazioni criminali e una fantomatica milizia di ex agenti di polizia, che sottraggono profitti del traffico di droga, 92 dei quali sono stati uccisi.

“Come si dice quando gli assassini accusano altri assassini? Mentono! Loro mentono e noi dobbiamo essere clementi con coloro che mentono?! Quei nababbi… io li odio! Li odio profondamente!” Questo lo avrebbe detto il Colonnello Kurtz…

 

Le distorsioni del racconto giornalistico

Se la verità è la mission di ogni giornalista, almeno nella sua dimensione originaria, nel nostro tempo sappiamo che sono tante le variabili che intralciano il racconto giornalistico attraverso la mistificazione della realtà.

Raccontare una guerra, dal punto di vista giornalistico, è sicuramente una delle ambientazioni più entusiasmanti poiché, allo stesso modo dei meccanismi narrativi della fiction, i fatti da raccontare funzionano da modello esplicativo del mondo sociale. Paradossalmente potremmo dire che la guerra è bella da vedere, cinematograficamente parlando, ma è anche bella da raccontare, se però vengono utilizzati proprio quei paradigmi narrativi legati alla fiction, che servono da esplicazione della realtà: coraggio, suspence, forza, eroismo, passione, sacrificio, ma soprattutto vittoria del bene e sconfitta del male.  

Il caso della recente guerra di Gaza ne è solo l’ultimo esempio. A portalo all’attenzione è stata la corrispondente di Al Jazeera in Medio Oriente, Sherine Tadros, in un articolo apparso sul quotidiano on line “The Huffington Post”.

L’analisi della giornalista individua due paradigmi massmediologici interessanti: la neutralizzazione dei fatti e la de-contestualizzazione. E’ un fatto che l’esercito israeliano sia di gran lunga più potente di quello palestinese, infatti i numeri ci dicono che gli israeliani uccisi dagli attacchi provenienti dalla striscia di Gaza, dal 13 al 21 novembre sono 5, mentre, nello stesso periodo di riferimento,  i palestinesi uccisi dagli israeliani sono stati 154, di cui 22 sotto i 15 anni. La Tadros racconta di una sua collega corrispondente televisiva, mentre era nel centro di Gaza, in collegamento con lo studio. "Le forze di terra israeliane   circondavano la striscia, le navi da guerra accerchiavano la costa e i droni e gli F12 pattugliavano i cieli". La giornalista anziché raccontare quello che stava vedendo, cioè l’assedio di un esercito potente nei confronti di un territorio vulnerabile, diceva: “l’assedio israeliano di Gaza, come lo chiamano i palestinesi”… Neutralizzare i fatti significa non rischiare di apparire dalla parte dei più deboli, ma questo non porta a raccontare la verità.

Vediamo invece il tema della de-contestualizzazione: “Una casa in cui vivono dieci persone compresi bambini, donne e anziani viene colpita da un missile. All’inizio c’è una reazione indignata, ma poi l’esercito israeliano rende noto che l’obiettivo era un esponente di Hamas. Di colpo la notizia è raccontata in un altro modo. Il particolare dell’esponente di Hamas è incluso in tutti i servizi senza discutere né contestualizzare: ora è tutto a posto, perché prima l’avvenimento era troppo sbilanciato”.

Noi aggiungiamo che la vittoria del bene sul male supera qualsiasi tipo di sacrificio, come in ogni racconto eroico…

 

LA GUERRA DELLE MASCHERE

 

Il principe ed il guerriero

Gli eventi che hanno caratterizzato la Costa d'Avorio dal 2002 al 2011 sono difficilmente codificabili nelle categorie che appartengono alle guerre tra i popoli, dove potere politico, interessi industriali e appartenenza etnico-religiosa si sono incrociati a vari livelli lungo tutto il ventesimo secolo e oltre. Se le guerre che attualmente sono combattute in Africa hanno un comune denominatore nel tribalismo, dato che principalmente coinvolgono le popolazioni civili, o neo-tribalismo, visto che le armi usate appartengono alla contemporaneità, quello che è successo in Costa d'Avorio, per alcuni versi, ha più i caratteri di una guerra di tipo feudale del nostro medioevo. Perché ad esercitare violenza sul territorio sono dei veri e propri clan, che dal 2002 si sono decuplicati. All'inizio vi era un'unica organizzazione militare ribelle, le Forces Nouvelles, dove convivevano tre ex gruppi autonomi. A questi si aggiungevano numerose formazioni mercenarie che operavano ai confini con la Liberia e la Sierra Leone, combattendo per il miglior offerente.

Ci sono molti aspetti particolari in questa vicenda che in qualche modo la rendono unica. Innanzitutto i motivi che hanno scatenato la guerra, motivi inizialmente difficili da leggere dall'osservatorio europeo. C'è innanzitutto la strana storia di una ordinanza del governo per smobilitare due guarnigioni, i cui ufficiali per organizzare una protesta, diciamo così, vigorosa

cercano di coinvolgere alcuni esiliati promotori del precedente colpo di stato, che hanno ancora un certo ascendente nelle forze armate nazionali. C'è poi la vicenda del dissesto economico che il paese vive negli ultimi anni. La Costa d'Avorio è una delle nazioni più sviluppate dell'Africa sud sahariana. La funzione strategica del porto commerciale di Abidjan è una delle chiavi di lettura della circolazione delle risorse per l’intero paese, tanto che proprio in seguito alla crisi prima e all'instabilità indotta dalla guerra interna dopo, non poté più servire da polo di attrazione per alcune aree limitrofe, come il Mali, paese senza sbocco sul mare che a sua volta viene travolto da una crisi interna di sistema. Ma la principale chiave di lettura è sicuramente la gestione delle materie prime e soprattutto del cacao, di cui la Costa d’Avorio è leader mondiale nella produzione ed esportazione.

Sulle piantagioni di cacao c’è tutta un’altra storia da raccontare che risale al 1995, quando l’allora capo di stato Henri Konan Bedié, succeduto al padre della patria Houphouet-Boigny, per contrastare le mire di potere del suo rivale Alassane Ouattara si inventò il mito della purezza etnica ivoriana, facendo breccia tra ampie fasce della popolazione, generando un conflitto sociale latente. In Costa d'Avorio esistono una sessantina di gruppi etnici cosiddetti autoctoni, e poi svariate nazionalità africane, mediorientali ed europee che hanno migrato dagli anni quaranta fino agli anni novanta, creando commistioni tra ceppi sommariamente definiti non autoctoni. Tutto questo nel contesto generale di un paese diviso in due: il nord musulmano e il sud cristiano. Durante il lungo regno del Presidente Houphouet-Boigny la dimensione multietnica era diventata proprio uno dei punti di forza sia della filosofia del potere che dello sviluppo produttivo, facendo diventare la Costa d'Avorio una delle aree più stabili ed economicamente progredite dell'Africa. Con la morte del leader carismatico la sua eredità non fu assunta da nessuno, anzi la lotta per il potere iniziò a provocare la caduta negli inferi, che pochi anni dopo, cioè durante gli eventi che stiamo raccontando, porterà a galla un barbaro conflitto civile. Ma come ogni storia che si rispetti, riguardante gli scontri di civiltà che siano essi endogeni o esogeni, dietro il mito della purezza etnica ci stanno degli interessi da gestire, perché le piantagioni di cacao sono prevalentemente localizzate nel sud del paese ma gestite da imprenditori provenienti dal nord.

Sta di fatto che le politiche nazionaliste del nuovo governo in carica producono una forbice socio-economica sempre più ampia tra ricchi e poveri, considerato che questo paese è uno dei pochi dove esiste una classe media, proveniente dai commerci e dalle imprese, nelle aree urbane, e dalle piantagioni nelle aree agricole.

Però, da questo momento in poi, ci sono altre storie che si dirimano, che si perdono nei meandri dell'interpretazione storica. Una di queste è la diaspora. Si, perché già nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della guerra civile, nell'estate del 2002, molte famiglie non autoctone del nord furono stimolate ad andare via dal governo nazionale, perché la guerra era imminente e loro sarebbero stati presi di mira dai ribelli. Poi ci furono le successive espulsioni di massa, gli sfollamenti, la fuga di decine di migliaia di persone dai loro villaggi nei bush, per salvarsi dalle ritorsioni trasversali dei clan. Quello che è successo si può semplicemente sintetizzare nel fatto che attraverso il tema etnico le organizzazioni criminali hanno potuto saccheggiare villaggi e città, producendo fughe di massa, interne ed esterne... Tutto questo ha creato una situazione tale che rende impossibile poter fare un censimento esatto sulle famiglie. Ma la cosa ancora più paradossale è che l'impossibilità di censire la nazione diventa uno dei motivi che ha sempre impedito di indire le elezioni per normalizzare il paese: se il cane si morde la coda, vuol dire che qualcuno ci marcia...

Tante storie che si vanno ad incrociare e rendono assolutamente ingarbugliata la matassa da districare. Cerchiamo di leggerle attraverso l’uso delle maschere. Nella storia del teatro e della letteratura le maschere hanno sempre assunto una funzione esplicativa della realtà: il principe o il guerriero, il bravo o il codardo, il traditore o l'eroe.

Il Principe è Laurent Koudou Gbagbo. Professore di Storia all’Università di Abidjan e Preside della facoltà di Lingue, dopo aver fondato il Fronte Popolare Ivoriano, è costretto, nell’85, all’esilio in Francia, per rientrare qualche anno dopo, giusto in tempo per candidarsi, con scarso successo, alle elezioni presidenziali del ‘90. Lo ritroveremo nel 2000 sempre come candidato alla medesima carica. Il suo rivale è il leader militare Robert Guéï, che si dichiara vincitore. Scoppia una rivolta ad Abidjan, poiché Gbagbo afferma di aver vinto lui con quasi il 60% dei voti. Guéï scappa e Gbagbo si insedia nella carica: finalmente diventa Principe, anche se l’amministrazione Clinton non lo vuole riconoscere, per la poca chiarezza nella gestione delle elezioni.

Ma torniamo per un attimo alle motivazioni del tentativo di colpo di stato che due anni dopo cercherà di defenestrarlo. Perché c’è un’altra versione, dove entra in gioco un altro Principe, assai più potente del Presidente in carica, che però nella messa in scena degli eventi ivoriani assume una dimensione strettamente legata alla maschera del Potere in quanto tale: è la Francia. Attenzione, non si tratta della Francia rappresentata dal questo o quel Presidente, ma la Francia come Potere di condizionare le ex aree coloniali attraverso la cosiddetta Françafrique. Infatti, una delle altre storie che sono uscite fuori da questa vicenda è che la ribellione sarebbe stata fomentata, soprattutto con l’intervento dei mercenari, tra Liberia, Sierra Leone e Burkina Faso, proprio dal governo francese, per destabilizzare il Principe ivoriano, considerato troppo nazionalista, al punto da minare gli interessi economici del paese d’oltralpe. Secondo questa nuova interpretazione degli eventi in Costa d’Avorio, non ci sarebbe stata una vera guerra civile ma un’attività di guerriglia che inizialmente aveva i punti forti nelle città di Abidjan al sud e Bouake al nord. Non riuscendo nell’impresa di sovvertire il Principe ivoriano si è dunque creata la situazione per cui Abidjan, capitale commerciale del paese, è rimasta al Potere costituito, e dal punto di vista sociale si è normalizzata, mentre Bouake è andata ai ribelli, diventando ricettacolo di violenza e degrado morale, tale da farla sprofondare nel medioevo appunto.

Certo, anche questa interpretazione risulta difficilmente leggibile se contestualizzata all’evoluzione dei fatti, considerato che le Nazioni Unite avevano da subito dato il loro sostegno al governo eletto e la Francia non poteva certo, nemmeno ufficiosamente, come fu per decenni nello stile degli Stati Uniti in Sud America, apparire come sponsor dei guerriglieri. Quando nel 2002 le tre organizzazioni militari si riuniscono a Bouake sotto un’unica regia politica, chiedono immediatamente alla Francia di restare fuori dai giochi e che ogni rappresaglia militare nei confronti dei ribelli sarebbe stata considerata un atto di guerra a tutti gli effetti. Questo perché l’esercito francese, nei mesi precedenti, era intervenuto contro i ribelli nelle città di Man e Duekoue, sempre nel nord del paese. L’elemento ancora più assurdo che si va ad aggiungere è che soltanto pochi mesi dopo i francesi cominciarono ad essere attaccati anche dai governativi, per poi raggiungere un accordo di non belligeranza.

Ufficialmente l’esercito francese era presente in Costa d’Avorio, per controllare il cessate il fuoco concordato nell’ottobre del 2002: una tregua restata sulla carta. La Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale intanto aveva deciso l'invio di 1.500 uomini da impiegare accanto al contingente francese. Dopo si aggiungeranno i caschi blu dell’Onu, e tutti insieme per cinque anni controlleranno una sorta di linea Maginot, chiamata zona di confidenza, che si estendeva tra est e ovest dividendo in due il paese: il nord controllato dai ribelli e il sud dal governo eletto.

E il guerriero chi è in questa storia? Si chiama Guillame Soro ed è il capo dei ribelli delle Forces Nouvelles. E’ colui il quale dopo le prime settimane di battaglia prende in mano il nord del paese, fomentando azioni di guerriglia. Ma Soro è un guerriero sui generis perché anziché fare la guerra di movimento, mantiene il controllo di una determinata area del paese, attraverso i clan. Il suo quartier generale è a Bouake; nel momento in cui si insedia costruisce il suo sistema di controllo territoriale, all'interno del quale c'è un patto con i ceti produttivi, a cui vengono garantiti protezione per loro, le loro imprese e le loro famiglie al costo di un pizzo mensile sui guadagni. Nell'accordo che aveva stilato con lui e con gli altri imprenditori e commercianti della città si stabiliva anche che quando Soro sarebbe riuscito ad andare al potere, tutti avrebbero smesso di pagare la protezione, poiché la situazione si sarebbe normalizzata. Infatti, è proprio lui il referente dei tavoli per le trattative di pace, che si susseguono negli anni senza alcun risultato.

Bouake, un milione di abitanti, era già da diversi anni un caso-tipo di decadenza morale, a causa dei crimini contro l'umanità. Paradossalmente c'erano due città parallele: la prima era quella, appunto, dei ceti produttivi, della borghesia, soprattutto non autoctona, che pagava la protezione a Soro e riusciva a garantirsi una vita assolutamente normale. Era la città del miscuglio etnico, combattuta dal falso mito dell’ivorianità. Poi c'era la città sodomita, cioè la città sprofondata negli inferi, perché la guerra in Costa d'Avorio è stata proprio questo. C’è un evento che è abbastanza significativo per spiegare cosa succedeva a Bouake. Nei vari scontri che si sono succeduti tra esercito regolare e ribelli l’obiettivo era sempre quello di riconquistare la città. Dopo uno di questi attacchi il ministero della difesa annunciò che la città era stata presa e che l’esercito regolare l’aveva posta sotto il suo controllo. In alcuni quartieri si sollevò una sorta di caccia ai ribelli, la cittadinanza stessa uccise alcuni di questi incontrati per strada. La vendetta fu atroce. Vennero massacrate decine e decine di persone, le donne furono indotte in schiavitù e i bambini furono venduti ai ribelli che controllavano le zone boschifere.

Esodi, sfollamenti, persecuzioni, massacri hanno smembrato migliaia di famiglie. Chi ad esempio apparteneva all’amministrazione pubblica veniva trucidato a colpi di machete. Così donne e ragazze rimaste sole sono state rapite e schiavizzate dai capi clan, costringendole, attraverso brutali riti di iniziazione, alla sudditanza. Ai figli troppo piccoli di alcune di queste ragazze è stata riservata una fine terribile: dentro delle fosse comuni. Dopo aver soddisfatto le voglie dei bravi, le donne venivano fatte prostituire nei locali della città, i cui clienti erano normali cittadini, ribelli o addirittura funzionari dell’ONU.

Poi, nel 2007, in Burkina Faso c’è la svolta. Viene raggiunto un accordo, poiché dal tavolo del negoziato rimane esclusa la mediazione internazionale con in testa la Francia: il Principe rimane presidente ed il Guerriero diventa primo ministro.

Da quel giorno la situazione nel nord anziché regolarizzarsi con la resa delle armi da parte dei clan e la riorganizzazione di un esercito regolare, va a peggiorare. I clan si spezzettano in sottogruppi praticamente anarchici, rifiutando di deporre le armi.

 

 Cronaca d’una dittatura caduta

Abidjan ormai è a ferro e fuoco. Gruppi armati si sparano addosso in una città fantasma dove non circola più nessuno, anche perché, come ormai da dieci anni, la popolazione viene presa di mira dalle parti avverse. Le condizioni igenico-sanitarie sono problematiche, manca l’acqua e l’elettricità: è una vera e propria crisi umanitaria.

Al telefono, Cristell, cittadina ivoriana residente a Bologna, dove ha ricevuto la protezione internazionale, racconta: “Ho parlato proprio ieri con mia zia, mi ha detto che insieme ai miei cugini sono riusciti a scappare in un villaggio vicino Abidjan, perché lì si rischia troppo. Ci sono soldati che entrano nelle case, ammazzano gli uomini e violentano le donne…” La ragazza scoppia a piangere mentre ci racconta della sua famiglia. “I miei cugini sono tre mesi che non vanno a scuola, non si può camminare per le strade perchè è troppo rischioso… Adesso sono costretti a razionare il cibo, perché non c’è come procurarselo”.

Gi elicotteri della missione francese Liocorno, che controllano l’aereoporto, insieme a quelli della missione ONU Onuci hanno bombardato il quartier generale del Presidente golpista Laurent Gbagbo, il quale sembra che non si sappia che fine abbia fatto. Si dice che per proteggere il quartier generale dagli attacchi di terra egli abbia usato la popolazione civile come scudi umani. Ecco, probabilmente, il motivo dell’intervento delle forze internazionali, che mai si erano schierati fino ad adesso sul piano militare, considerati i richiami al Presidente golpista da parte di tutta la comunità internazionale, da Ban Ki-moon a Obama, per far rispettare la risoluzione 1975 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, finalizzata a proteggere la popolazione civile, quindi a rispondere al fuoco ma non a defenestrare il presidente golpista.

Le notizie si rincorrono frenetiche, disegnando uno scenario davvero apocalittico, anche perché non si capisce bene la composizione degli schieramenti sul fronte di guerra. Da un lato c’è lo schieramento del Presidente golpista, che dopo aver perso le elezioni si è rifiutato di lasciare il potere ad Alassane Ouattara, riconosciuto nuovo Presidente dalla comunità internazionale. In questo schieramento rientra la Guardia repubblicana, le forze d’assalto della marina, una parte dell’esercito regolare, che sembra perdere pezzi giorno dopo giorno, a cui si aggiunge una sorta di milizia irregolare chiamata “I giovani patrioti”: in tutto tra le cinque e le seimila unità.

Dall’altro lato, a sostegno di Ouattara, vi sono le famose “Force Nouvelle” che già dal 2002 avviarono la guerra civile contro Gbagbo, impossessandosi da allora di tutto il nord del paese. Un tempo queste erano guidate da Guillaume Soro, il quale nel 2007 fece un accordo con Gbagbo diventando il suo primo ministro. A quel punto questi gruppi armati non deposero le armi e restarono al nord imponendo una sorta di legge del taglione. Con le nuove elezioni Soro è diventato il primo ministro di Ouattara e proprio ieri ha annunciato da un canale televisivo l’avvio di una rapida offensiva, le forze antigovernative sono arrivate al sud nelle due città portuali, San Pedro prima e Abidjan dopo.

Ma questa rapida offensiva non è del tutto chiaro da chi viene condotta, perché insieme alle Force Nouvelle, sembra che si siano uniti mercenari da varie parti dell’Africa, prevlentemente Burkina Faso e Nigeria, stessa cosa fatta da Gheddafi in Libia, a questi si aggiungono un esercito miliziano costituitosi all’indomani del golpe di novembre, chiamati “Combattenti del Comando invisibile” che però hanno giurato fedeltà ad un capo militare chiamato Ibrahim ‘IB’ Coulibaly, accusato proprio ieri da uomini di Ouattara di tentare un colpo di stato nel colpo di stato… A questi si aggiungono i fantomatici cacciatori della tribù dei dozos, che sembra abbiano partecipato al massacro di più di 300 civili nella città occidentale di Duékoué.

Già, i massacri nei confronti della popolazione, caratteristica preponderante di tutta la storia bellica degli ultimi dieci anni in Costa d’Avorio. Si perché a prescindere da chi sta al potere, a prescindere dagli obiettivi militari della guerra, il saccheggio e le violenze vengono perpetrati da tutte e due le parti in causa. Allo stato attuale vi sono circa un milione di profughi e un migliaio di morti.

 

Il dittatore in gabbia

Erano circa le 15 quando in una stanza dell’Hotel du Golf, il quartier generale di Laurent Gbagbo, dove per 11 giorni aveva resistito all’assalto militare delle forze speciali francesi e dell’ONU, il Presidente golpista si consegnava ad un gruppo di uomini non identificati, facenti parte dell’esercito irregolare del Presidente legalmente eletto Alassane Ouattara. Insieme a questo gruppo

armato vi era anche un cameramen della televisione ivoriana TCI che riprendeva le immagini della resa. Gbagbo era visibilmente stanco e frastornato, seduto sul letto, in canottiera, insieme alla moglie Simone e al figlio di primo letto Michael. Veniva fatto alzare e con movimenti lenti il figlio gli passava un’asciugamano per togliersi il sudore della fronte, mentre un altro uomo lo aiutava ad indossare una camicia, con la moglie che osservava la scena sbigottita.

Una immagine surreale di un uomo e di una donna che, attraverso l’occhio della telecamera, sembravano due derelitti. Come poteva essere possibile che proprio quello era l’uomo che da quel 28 novembre 2010, una volta perse le elezioni, per non lasciare il potere, innescò una guerra civile, che in soli quattro mesi ha prodotto più di un milione di profughi, migliaia e migliaia di morti e inenarrabili violenze tra i civili, causando inoltre una emergenza sanitaria assurda con centinaia di salme per le strade non seppellite, assenza di acqua, elettricità e cibo, con un sistema economico florido messo in ginocchio.

In effetti, il ruolo giocato dalla moglie Simone, di cui non si è quasi mai parlato, ha una importanza decisiva sugli eventi soprattutto degli ultimi mesi. Da una ricostruzione abbastanza verosimile sembra che il vero capo di stato sia proprio lei. Gbagbo, si dice, che aveva già deciso di fuggire in Benin insieme alla sua famiglia, ma la donna, sembra, che lo abbia convinto a non farlo. Perché? Il retroscena è molto inquietante, quello cioè di una sorta di “cenacolo nero”, costituito da un gruppo di pastori evangelici oltranzisti, tra cui il ministro della gioventù, ed un consulente spirituale, diventati i più influenti consiglieri del Presidente, istigato dalla moglie ad abbandonare il cattolicesimo, per poi farsi affidare praticamente le leve del partito. Sono proprio loro ad averlo convinto che in Costa d’Avorio la sua missione era stata decisa da Dio e che solo Dio poteva togliergli il potere…

Sulla sorte di Gbagbo, adesso, si fanno varie ipotesi, direttamente legate al futuro del paese, che dal 2000, cioè da quando rocambolescamente prese il potere, vive una lacerazione che per essere ricomposta avrà bisogno di anni, e non è detto che ci si riuscirà. C’è una incriminazione al Tribunale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità, che va di pari passo con un odio profondo nei suoi confronti e dei suoi sostenitori, i quali gridano vendetta. Ma sia un processo che una vendetta rischierebbero di mantenere inalterata una condizione di conflitto permanente che dura da dieci anni, e la Costa d’Avorio, per risollevarsi, ha bisogno soltanto di due cose: legalità e pacificazione nazionale.

Del resto se si parla di crimini contro l’umanità in Costa d’Avorio ce n’è per tutti. A cominciare da Guillaume Soro, il suo primo grande oppositore, fondatore di quelle “Force Nouvelle” che fino al 2007 erano sotto il suo diretto comando nel quartier generale di Bouakè, da dove taglieggiava la popolazione per finanziare i suoi ribelli, i quali a loro volta si rendevano artefici delle violenze sui civili più invereconde. Poi si accordò con Gbagbo e divenne il suo primo ministro, per passare, alle elezioni del 2010, dalla parte opposta, diventando il primo ministro di Ouattara. Ma questo passaggio ha comportato anche l’eredità delle Force Nouvelle, che dal nord del paese non sono mai andati via e che nella marcia di questi mesi verso Abidjan, hanno ammazzato, violentato, derubato la popolazione civile.

 

Processo ai bravi

Quando in Costa d'Avorio, nel 2007, si forma il nuovo governo i nodi politici da sciogliere sono principalmente legati all'impossibilità, quasi “tecnica”, di normalizzare il paese, poiché la titolarietà della gestione del territorio ce l'hanno i clan militari, o per meglio dire gli ex clan militari, i cui componenti da adesso in poi verranno definiti ex ribelli. Ed è proprio questo il punto. Perché il nuovo posizionamento di Soro garantisce se stesso e pochi altri, la gran massa di bravi che fino a quel momento si sono arricchiti negli anni della guerra, restano sul campo a saccheggiare il territorio, rifiutando di consegnare le armi. La popolazione civile diventa preda di bande che si sono ancor di più frammentate e ricomposte, dentro un'area territoriale assolutamente senza legge. Non solo, ma il fatto che il controllo del territorio voglia dire guadagni, mette in competizione le bande tra loro. Queste si fanno guerra a vicenda, utilizzando ritorsioni e regolamenti di conti in perfetto stile mafioso. Come in stile mafioso sono le pax, cioè gli accordi di non belligeranza o addirittura di collaborazione tra clan diversi.

I boss di queste bande sono dei crudeli criminali che taglieggiano i cittadini, riducono in schiavitù donne e bambine, trafficano in organi, cercano cioè di arricchirsi a più non posso dal potere che esercitano nel loro feudo, e che difendono con le armi. Ecco la maschera del bravo, predatore nato, famelico nella sua delirante rabbia di ricchezza, bandito comune poiché sprovvisto di mete ideali. Il concetto di separazione tra vita e morte non è praticabile, perché la morte è comunque uno strumento di guadagno.

Ma c'è un'altra storia da raccontare. Una storia dove le maschere possono essere viste come la rappresentazione assurda di un mondo capovolto, dove il bene e il male non riescono a trovare le proprie radici poiché si perdono negli anfratti remoti della realtà. E' la storia di un processo penale mai svoltosi, che vede come imputato il capo di un immenso campo militare, nei pressi della città di Man, trasformato in villaggio di guerriglieri che lo abitano con le loro famiglie, in tutto circa cinquecento, proprio in mezzo alla zona di confidenza. Il boss viene accusato di atroci crimini nei confronti della popolazione civile, come anche dei suoi stessi uomini. Le accuse rivolte dal Pubblico Ministero sono gravi e circostanziate poiché comprovate da una serie di testimonianze dirette raccolte da organismi di cooperazione internazionale.

“Quest'uomo, per circa tre anni, ha organizzato assalti ai villaggi con massacri e stupri. Posti di blocco per rapinare la gente di passaggio, torture e ferimenti di vario genere, dove l'arma più usata è il machete, oltre a reprimere, anche nel sangue se fosse stato necessario, le manifestazioni di protesta della popolazione di Man, contro i suoi soprusi”.

Poi, dopo l'accordo tra il Principe ed il Guerriero, lui che era semplicemente un bravo, decise di smobilitare il campo e unirsi ad un altra banda di ex ribelli, costituitasi in una sorta di “cupola”, poiché raccoglieva piccoli gruppi di sparuti bravi, per prendere il controllo totale delle due città: Man e Duekoue.

“Con gli altri leader venne deciso che ai componenti del villaggio, che non volevano unirsi alla nuova organizzazione, sarebbero stati riconosciuti 500.000 franchi per tornarsene nelle loro città al sud del paese. Un centinaio di uomini non aderirono al nuovo progetto, e i capi affidarono i danari da dividere all'uomo che era il loro capo e che oggi abbiamo qui davanti. Egli però ne corrispose solo in minima parte, il grosso del quantitativo se lo tenne lui. Gli uomini protestarono fortemente, minacciando di ucciderlo. Egli allora prese tempo. Disse loro che il resto dei soldi sarebbero stati dati nel giro di pochi giorni. Così, si recò notte tempo dai leader della nuova organizzazione e li denunciò, raccontando che quelli in realtà non avevano nessuna intenzione di tornarsene a casa ma stavano per armarsi proprio contro di loro. La notte seguente nel villaggio entrarono diverse centinaia di ex ribelli e massacrarono quei cento uomini, stuprarono le donne e poi le uccisero insieme ai loro figli”

La cosa che colpisce in questa storia, oltre ovviamente ai crimini, è l'arringa del difensore del bravo, che cercando di sovvertire il sistema dei significati, come fa ogni scaltro avvocato, individua le responsabilità dei crimini del proprio cliente in qualcosa che sta al di sopra della sua umana vita. Ma è davvero un sovvertimento dei significati o ci può essere una logica in tale strategia difensiva...?

 

Quello che mi si chiede oggi è di difendere un uomo che voi avete già condannato. Si perché i crimini che avrebbe commesso sono così estremi che il giudizio sembra irrimediabile. Però permettetemi prima di iniziare con un ricordo. Quando il nostro Primo Ministro anni fa strinse la mano al mio cliente e gli disse bravo, so che la nostra causa trionferà perché abbiamo uomini come te... Questo gli disse il nostro Primo Ministro! Ed è proprio per questo che ora vi chiedo di ascoltarmi. Io oggi voglio parlare del nostro mondo, cioè della nostra Africa. Ma voglio anche parlare di un Grande Gioco che ha tenuto il nostro continente schiavo del mondo occidentale. Quel Potere oggi non si manifesta più come una volta, imponendoci le sue leggi, i suoi governatori, i suoi costumi. Oggi è diverso. Oggi è il denaro che conta, perché questa è la nostra società. E' la caratteristica dell'umana specie del nostro mondo, perché non c'è niente, dico niente che possa realizzarsi al di fuori del denaro. Niente di glorioso, gradevole, orgoglioso che si possa realizzare senza il denaro. Forse i governi di tutti paesi africani non sono retti sul piacere del denaro, soprattutto quando fanno affari con gli occidentali per sottrarre le risorse ai cittadini...? Non è forse la forza dello stesso denaro a far si che se si combattono guerre c'è chi ci guadagna...? E ancora, vi chiedo, non è forse il denaro a sventrare interi territori per far posto agli insediamenti industriali occidentali, distruggendo pesca e agricoltura, affamando così il popolo, che su quelle attività ha costruito la propria vita...? Già, il popolo...! Perché illustrissimi signori della corte, voi oggi rappresentate il popolo, e questo tribunale giudica in nome del popolo...! Ma il popolo può giudicare gli abusi che subisce dal Principe e dai suoi guerrieri...? Perché quali abusi possono essere ascritti al comportamento del mio cliente se non quello di essere un uomo fidato del Principe, su cui il Principe ha puntato per la riscossa della sua stessa causa, perché è questo che è successo al mio cliente. Si dice che ha fatto uccidere per denaro, ma non è la stessa cosa che fa il Principe...?Non è forse la stessa cosa che fanno le compagnie economiche occidentali? Ma allora, signori della corte, perché il mio cliente deve pagare per questo? Si dice che ha torturato, ma in una guerra come questa un soldato, che ha anche delle responsabilità di comando, utilizza quei metodi che gli sono stati insegnati. Si dice che ha stuprato delle donne. Ma nel nostro ordinamento non esiste una legge che vieti di avere rapporti sessuali anche non consensuali. E poi si sa, l’uomo è un dominatore per vocazione, e di questo vogliamo fargliene una colpa? Si dice poi che ha venduto esseri umani, che ha ucciso bambini, si dice persino che avrebbe violentato una infante di tre anni! Ma signori, lo stesso Presidente della repubblica ivoriana ha firmato una ordinanza che garantisce l’amnistia per quei cosiddetti crimini commessi nell’ambito della guerra. Perché una guerra è una guerra! Una guerra è di per se un crimine contro l’umanità, e per questo deve pagare il mio cliente? Ma gentili signori della corte, vi sembra possibile che un uomo che per anni è stato accanto al nostro primo ministro, possa essere portato in un tribunale per essere giudicato...? Un uomo che ha combattuto per un paese di ivoriani deve trovarsi alla sbarra? No, signori della corte, questa è una vera e propria ingiustizia, che voi come rappresentanti del popolo dovete sanare...”

 

GLI ECHI DEL DESERTO

 

La guerra del Mali

L’intervento militare in Mali, iniziato l’11 gennaio, con appena 750 uomini dell’aviazione francese, è l’ultimo capitolo di una vicenda, raccontata fra le righe della comunicazione giornalistica, almeno in Italia, che affonda le sue radici nella storia dei conflitti africani fra colonialismo e autocrazie. Anche se forse in questo caso c’è qualcosa di particolare: il deserto. 

E’ infatti il deserto la chiave di lettura di questo luogo, poiché abbraccia il nord, rappresentando i due terzi del paese. Dei 14 milioni di abitanti poco meno di due milioni vivono al nord, quasi tutti concentrati sulle coste del fiume Niger, che tocca le città di Konna, Timbuktù e Gao. Sopra la linea disegnata dal fiume vivono circa cinquecentomila persone, in prevalenza nomadi di origine araba e berbera, rispetto ai quali quella dei Tuareg è l’etnia più rappresentativa.

L’area meridionale del Mali, strutturalmente urbanizzata, si estende lungo la fascia saheliana, la cui capitale Bamako rappresenta il polo urbano su cui è organizzato l'intero sistema-paese. 

I confini vennero definiti in epoca coloniale, dalla “madre patria” francese, stabilendo comunque una netta divisione tra centro e periferia, cioè tra sud e nord del paese. Ma questa netta differenziazione ha in qualche modo conclamato la dimensione del nord come una sorta di terra di nessuno, governata dalle popolazioni nomadi, tra traffici illeciti, rapimenti e mercenari…

C’è da dire che le tradizioni storiche di un luogo come Timbuktu hanno indotto l’Unesco a dichiarare quella zona patrimonio dell’umanità, grazie ai suoi siti. Timbuctu venne fondata nell’XI secolo, diventando il punto d’incontro tra le popolazioni arabe e quelle africane e forse anche questa è un importante chiave di lettura del conflitto attualmente in essere. La cosiddetta città dei 333 santi, porta del Sahara, dove cammelli e piroghe si alternavano tra il deserto e il fiume Niger, crocevia degli scambi commerciali per le principali merci: oro, sale e schiavi. Qui i trafficanti arabi, africani, ebrei ed europei facevano i loro affari, in un contesto dove fiorivano centri di conoscenza e insegnamento del corano, della medicina e della matematica. 

A Timbuktu sorse una antica università dove appunto laicità e corano convissero dando vita ad una espressione islamica non estremizzata ma moderata, inconciliabile con la versione oltranzista della sharia, introdotta dai gruppi salafisti che controllano attualmente il territorio.

 

Da Gheddafi all’Algeria

La guerra ad al Qaida in Mali entra nel vivo con i fatti legati al sito petrolifero di In Amenas, nel sud-est dell'Algeria, dove i jiadisti hanno preso in ostaggio 41 persone, tra cui 7 americani, 2 francesi, dei britannici e dei giapponesi. Durante l'attacco dei terroristi islamici 2 persone, fra cui un britannico, sono state uccise e sei ferite. Poche ore dopo l'esercito algerino con un raid aereo cercava di riprendere il controllo del sito e nell'operazione 35 ostaggi e 15 sequestratori rimanevano uccisi.

Come ogni guerra africana diventa difficile risalire alla sua origine. In questo caso possiamo rintracciarla dai fatti che portarono alla defenestrazione di Gheddafi, il quale aveva armato e pagato migliaia di tuareg, i nomadi del deserto maliano. Si potrebbe dire che l'attuale situazione nasce il 16 ottobre 2011, pochi giorni prima dell'uccisione del rais libico. E' quello il momento in cui nasce il “Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad”.

Il 17 gennaio 2012 i tuareg del Mnla conquistano la base militare di Amachach, al confine con l'Algeria, postazione strategica per iniziare il cammino verso il sud, mettendo in difficoltà lo scalcinato esercito regolare. I tuareg già dalla prima offensiva si sono collegati a organizzazioni salafite che fanno riferimento all'area magrebina di al Qaeda: i gruppi islamisti Aqmi, Mujao, Ansar Dine. In due mesi l'avanzata di questi ribelli è stata impetuosa.

Il 22 marzo un colpo di stato, capitanato da Amadou Haya Sanogo, ufficiale addestrato dall'esercito americano per contrastare al Qaeda, mette fine alla presidenza di Amadou Toumani Touré, accusato di debolezza contro i ribelli. Nelle prime due settimane di aprile i ribelli raggiungono le città roccaforti sul Niger, i golpisti affidano il potere ai civili, viene eletto il nuovo Presidente ad interim, Dioncounda Traoré, già presidente del Parlamento maliano. 

Il 6 aprile il Movimento nazionale per la liberazione del Mali dichiara l’indipendenza della regione settentrionale del paese, chiamata Azawad. Nei mesi seguenti i tuareg vengono estromessi dai gruppi salafiti dalla gestione dei territori occupati. Essi impongono la sharia. Distruggono i siti patrimonio dell'umanità. Perpetrano inumane violenze alla popolazione, costretta a fuggire... 

Per mesi si parla di un intervento francese per fermare l’avanzata salafita, proprio perché la Francia è storicamente il referente politico dell’Africa sub sahariana, poiché gestisce forti interessi economici e politici nelle sue ex colonie: la cosiddetta “Françafrique". In dicembre l'ONU emette una dichiarazione dove si individuano i paesi africani come coloro che possono intervenire sulla crisi maliana. Ma all’inizio dell’anno il Presidente ad interim Traoré chiede ufficialmente l’intervento militare franc

 

La Françafrique e le risorse naturali

La guerra in Mali, che ha scatenato la furia omicida di al Qaida in Algeria, non può che avere una duplice lettura. Da un lato c’è l’attacco dell’oltranzismo islamico con il tentativo di imporre la sharia sui territori maliani, infondendo atroci violenze alla popolazione, che ha accolto le truppe francesi con ovvio entusiasmo. Sullo sfondo però ci sono gli interessi francesi legati allo sfruttamento delle risorse naturali, prevalentemente oro e bauxite. Su questo aspetto è stata costruita la politica francese degli ultimi cinquant’anni, col graduale processo di decolonizzazione dei paesi africani.

Prima della seconda guerra mondiale l’impero coloniale francese in Africa si estendeva per 12 milioni e mezzo di chilometri quadrati, riunendo 18 paesi sotto il proprio controllo. Come scrive Carlo Caracciolo su Limes, il colonialismo francese si basava “sul principio dell’assimilazione. L’impero come estensione del territorio metropolitano, anche sotto il profilo amministrativo. Le classi dirigenti locali venivano (vengono) educate sui manuali e con le tecniche distillate nei laboratori del grandioso apparato statale centrato su Parigi e di lì irradiato nei dipartimenti, africani inclusi”.

Dal dopo guerra in poi le colonie conquistarono l’autonomia politica, ma la Francia mantenne la sua presenza attraverso una pratica chiamata “Françafrique”, cioè una vera e propria sfera d’influenza fondata sostanzialmente su due presupposti. Il primo era di carattere culturale legato al fatto che lo studio della lingua nelle scuole determinava la dimensione francofona, storicizzando una identità culturale.

Ma il secondo aspetto è quello più rilevante, e cioè che la salvaguardia degli interessi economici francesi è stata organizzata attorno allo sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie dei paesi africani, di cui i territori sono ricchi. Il fatto è che la salvaguardia di questi interessi è stata costruita mantenendo e proteggendo al potere, nei singoli paesi africani, autocrati corrotti e spesso crudeli che hanno affamato le loro genti, mantenendole in povertà. Questo spesso allo scopo d’impedire che i popoli africani potessero democraticamente autodeterminarsi, utilizzando quelle risorse per il benessere locale. Parte della stampa francese ribattezzò questo approccio, in termini negativi, come “France-à-fric”.

 

Quel sogno africano infrant

Agli inizi degli anni ottanta in Africa c’era un uomo che aveva fatto un sogno: “ridare l’Africa agli africani”. Questo perché il continente più dominato della storia, dopo aveva superato la fase del colonialismo europeo, era stato invaso dalle multinazionali per lo sfruttamento delle risorse naturali, funzionali al benessere dei paesi ex coloniali, i quali imponevano dinamiche produttive e commerciali che ne impedivano lo sviluppo. A questo si aggiungevano gli autocrati corrotti, che governavano l’Africa, garantiti dai paesi ex coloniali, per legittimare gli affari occidentali. Questi saccheggiavano i loro popoli, usando la spesa pubblica per vivere da nababbi, producendo debiti con l’estero che schiacciavano i ricchissimi territori in una povertà endemica

In effetti questa non sembra tanto una storia di ieri, perché è anche la storia di oggi, cioè la storia e la cronaca dei paesi africani. Ma la storia dell’uomo che aveva un sogno è sicuramente una storia di ieri, che mai più si è ripetuta. Si chiamava Thomas Sankara, artefice della più straordinaria rivoluzione popolare non violenta: “Quando c’è chi mangia e chi può solo guardare è lì che nasce la rivoluzione…

Era un capitano dell’esercito dell’Alto Volta, un paese poverissimo stretto tra il Mali, la Costa d’Avorio, il Ghana e il Niger, ex colonia francese, governato da una casta corrotta, in perfetta linea con gli interessi occidentali, soffocato dal debito col Fondo Monetario Internazionale. Un paese in cui c’era un tasso di mortalità infantile del 187 per mille, un tasso di alfabetizzazione del 2 per cento, un’aspettativa media di vita di 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.

Nel 1983 un colpo di stato incruento, guidato da un suo fraterno amico di nome Blaise Compaoré, lo porta, a soli 33 anni, al potere di questo povero paese sub sahariano, e come primo atto gli cambia subito il nome, lo chiama “il paese degli uomini integri”, che nelle lingue locali, moré e dioula, si dice Burkina Faso.

La sua presidenza stravolge le prassi di governo africane, elimina qualsiasi tipo di privilegio del sistema di potere, i suoi ministri li fa girare in Renault 5, e li fa intervenire direttamente con olio di gomito sui lavori pubblici. Taglia gli stipendi statali, elimina radicalmente la corruzione nei palazzi del potere, impone uno stile essenziale ai dirigenti pubblici, lui stesso vive in una casa in mattoni estremamente mesta, pagata con un mutuo. Viene quasi deriso dai suoi colleghi presidenti africani per il suo stato di povertà personale, soprattutto da Félix Houphouët-Boigny, Presidente della Costa d’Avorio, il quale aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio sul ghiaccio per il diletto dei figli.

Fa una massiccia campagna di alfabetizzazione e di vaccinazione contro le malattie di massa: febbre gialla, colera e morbillo. In brevissimo tempo garantisce a tutti gli abitanti del suo paese dieci litri di acqua e due pasti al giorno, togliendo la principale risorsa per la vita di una persona dalle mani degli speculatori. Difende i diritti delle donne contro le violenze degli uomini, ridefinendo lo stigma culturale africano delle donne come subalterne ai maschi, facendole attivamente partecipare alla vita pubblica. Ricostruisce un dinamico sistema produttivo legato all’abbigliamento, promuovendo tessuti e stili africani. Propone ai paesi limitrofi una cultura della pace tra i popoli interrompendo l’acquisto di armi dall’occidente. Quando ospita l’imbarazzatissimo Mitterand, accusa la Francia di fare affari con il Sud Africa dell’apartheid.

Ma il gesto più eclatante Sankara lo compie nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell'Organizzazione per l'Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, dove, con un discorso che rappresenta un testamento politico di una contemporaneità sconvolgente, esorta i paesi africani a non pagare il debito con l’estero:

“Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici anzi dovremmo invece dire «assassini tecnici». Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei «finanziatori» (…) E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi.

Il 15 ottobre del 1987 quel suo vecchio amico con cui aveva sognato un’Africa diversa, Blaise Compaoré, rovescia il suo governo e lo uccide attraverso una sorta di complotto internazionale tra servizi segreti francesi e statunitensi, con l’appoggio del presidente ivoriano e di quello liberiano. Il paese degli uomini integri ritorna ad essere povero e sfruttato.

Compaoré è ancora il Presidente del Burkina Faso, uno di quelli che ha assicurato sostegno alla Francia nella guerra ad al Qaeda in Mali.

 

GRUPPI ARMATI E POPOLI SOGGIOGATI

 

L’inferno nigeriano

Boko Haram è una organizzazione fondamentalista musulmana sunnita. Il suo nome in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è peccato”; essa è divisa in fazioni ed è diventata nota in seguito alla recrudescenza della violenza religiosa nel 2009 contro i cristiani e le loro chiese. Nata nel 2002 per opera dell’imam Mohammed Yusuf nella città di Maiduguri, capitale dello stato del Borno, nel nord-est del Paese, Boko Haram mira alla creazione di uno stato islamico in Nigeria, all’imposizione della Sharia nella sua interpretazione più radicale e ad un’interpretazione letterale del Corano.

C’è da dire che non sono ben chiari i rapporti con il resto del movimento jiadista, presente in Africa e Medio Oriente, anche se negli ultimi mesi sembra che sia stato stretto un legame con le reti presenti in Mali, tanto da auspicare, da parte del Presidente nigeriano Goodluck Jonathan, l’intervento francese per reprimere la ramificazione dell’organizzazione, dove sembra essere inserita nel traffico di droga, funzionale a far cassa. Il governo nigeriano ha tentato di smantellare l’organizzazione nel 2009 con l’arresto e morte di Yusuf. Il successore, Abubakar bin Muhammad Shekau, più radicale, ha sviluppato l’organizzazione dal punto di vista militare, attraverso nuovi obiettivi: le infrastrutture governative.

I loro attacchi sono principalmente rivolti, oltre che contro le chiese, contro le scuole, tanto che nel 2012 circa 10000 alunni della città di Maiduguri sono stati costretti ad abbandonare l’istruzione, poiché bisogna anche considerare che in Nigeria tutti i diritti fondamentali sono difficilmente garantiti, quindi se una scuola viene distrutta non vi è la possibilità di costruirne un'altra o di spostare gli alunni da qualche altra parte… In questo senso la sua strategia jiadista si differenzia dalle altre grandi organizzazioni territoriali come al-Qaeda o Al Shabab. Le azioni eclatanti sono state rivolte contro il quartier generale della polizia nella capitale federale Abuja, nel giugno 2011, e due mesi dopo alla sede dell’Onu nella stessa città.

Con l'assalto al carcere della città di Bama, nel nord est del paese, l’organizzazione ha liberato 105 detenuti. Inoltre hanno dato alle fiamme alloggiamenti militari, una stazione di polizia, edifici governativi, causando una strage. Sono rimasti uccisi 22 poliziotti, 14 guardie carcerarie, due soldati, quattro civili e 13 fondamentalisti.

Boko Haram è fondamentalmente diviso in fazioni, sembra che siano tre quelle certe, che agiscono spesso autonomamente, per cui se qualcuno lancia messaggi all’esterno ciò non vuol dire che parli a nome di tutta l’organizzazione. In tal senso non si comprende bene il sistema organizzativo interno, a partire dalla catena di comando. Ecco perché diventa difficile da parte delle autorità nigeriane, instaurare un possibile dialogo, anche se c’è da dire che neanche il governo nutre di attendibilità visto che le forze dell’ordine sono spesso autonome dalle direttive governative, diventando protagonisti di innumerevoli violazioni dei diritti umani, che contribuiscono ad alimentare sfiducia nelle istituzioni.

Negli ultimi tempi una delle fazioni di Boko Haram si è specializzata nel rapimento di ostaggi per finanziare l’organizzazione, si chiama Ansaru, e i suoi leader hanno dichiarato la loro vicinanza ad altri movimenti jiadisti come Aqmi attivo, appunto, nel nord del Mali. Una delle loro vittime fu proprio Silvano Trevisan, rapito e ucciso insieme ad altri sei ostaggi, per motivi ufficialmente legati ad una sorta di ritorsione contro i paesi europei presenti in Mali e Afganistan. In un video uno dei presunti leader di questa fazione ha anche dichiarato di prendere le distanze dalla disumanità delle azioni di Boko Haram perché coinvolge anche la comunità musulmana moderata.

Il radicamento dell’organizzazione affonda nel contesto locale della Nigeria del nord. Un’area in cui il rifiuto dell’autorità centrale ha radici storiche, individuabili anche nei contrasti per il controllo del petrolio. Gli abitanti delle regioni settentrionali si considerano svantaggiati proprio per l’alto tasso di corruzione del sistema politico, che non permette alla popolazione di beneficiare delle risorse dello stato africano più popoloso, il quarto esportatore di petrolio, uno dei più poveri del mondo, dal punto di vista della popolazione.

C’è da dire che il mistero sulla effettiva catena di comando sembra nascondere legami e sostegni ambigui con alcuni centri del potere politico nel nord. C’è una inchiesta, ad esempio, su due senatori del People Democratic Party, il partito di governo, Ahmed Zanna e Mohammed Ali Ndume o voci sull’ex dittatore Ibrahim Babangida, che si difende accusando di complotto il Presidente in carica. C’è una tradizione da parte dei gruppi di potere del nord, di supportare l’instabilità, come il sostegno al Mend, il movimento di emancipazione nella regione petrolifera del Delta. Ciò che è sicuro è che l’autorità del capo dello Stato in carica è vacillante, considerate anche le guerre di posizione all’interno delle istituzioni in vista delle nuove elezioni del 2015, anche se, come la storia insegna, le elezioni in Nigeria si vincono con intimidazioni, violenza organizzata e brogli.

 

Il nuovo “ratto delle sabine” che lascia indifferente l’Italia

La storia che stiamo per raccontare è di quelle che mette i brividi sulla schiena e non solo per l’agghiacciante brutalità del fatto, ma anche perché nella stampa italiana è stata trattata secondo le normali prassi: l’articolo del giorno e domani passiamo ad altro… Non un approfondimento televisivo, non un dibattito sul paese in questione o sull’inerzia dell’occidente, non una parola sulle donne offese e brutalizzate di questa storia, come se i problemi di genere e la violenza sulle donne fosse legittimo parlarne solo rispetto a quello che accade in Italia

Era la notte tra il 14 e 15 aprile scorso, in una scuola superiore della città di Chibok, Stato del Borno, nel nord est della Nigeria. Le ragazze stanno dormendo quando il dormitorio della scuola viene preso d’assalto da un commando del gruppo oltranzista islamico Boko Haran. Forse, insieme ad Al-Shabbah, che opera in Somalia e in Kenia, è l’organizzazione jihadista più violenta, non fosse altro perché prioritariamente prende di mira le scuole, dandogli a fuoco, uccidendo insegnanti e studenti. I motivi stanno nel nome stesso dell’organizzazione cioè: “l’educazione occidentale è proibita”
 

Ma in quella notte di aprile viene compiuto un salto di qualità nella strategia del terrore che questa organizzazione ormai semina da anni nel nord del paese,  che poi è la parte più povera, poiché i proventi dell’estrazione del petrolio sono gestite da “oligarchi” del sud cristiano, in partnership con le grandi compagnie europee e americane.

Quella notte 276 ragazze tra i 15 e i 18 anni vengono fatte salire su dei camion e rapite.

Durante il tragitto 53 di esse riescono a scappare, per un guasto al motore che costringe la vettura a fermarsi. Alcune di loro hanno raccontato la dinamica dell’assalto, al giornale nigeriano “The Punch”: "Sono entrati nella nostra scuola e ci hanno fatto credere che erano soldati, indossavano divise militari: quando abbiamo scoperto la verità era troppo tardi e non abbiamo potuto fare molto. Gridavano, erano maleducati. Ecco perché  abbiamo capito che erano ribelli. Poi hanno cominciato a sparare e hanno appiccato il fuoco alla scuola. Hanno anche sparato alle guardie armate di protezione della scuola". Amina e Thabita poi si sono soffermate sulla fuga: "Il nostro veicolo aveva un problema e si è dovuto fermare. Ne abbiamo approfittato per cominciare a correre e ci siamo nascoste nei cespugli…”  Le notizie che si succedono, nel frattempo sono inquietanti, perché le ragazze dovrebbero essere state deportate in altri paesi africani limitrofi, dove i terroristi hanno forti insediamenti: Camerun e Ciad
 

Dopo due settimane di angoscia delle famiglie, e varie manifestazioni di piazza, dove le madri hanno manifestato la loro rabbia e protestato contro le istituzioni nigeriane per la liberazione delle figlie, è arrivata la doccia fredda. Boko Haran, attraverso le parole del proprio leader, Abubakar Shekau, ha fatto pervenire un video, dove si annuncia che un parte delle giovani sarebbero state vendute come schiave al prezzo di 12 dollari, mentre un’altra parte sarebbero state costrette a sposarsi con la forza.

Quest’ultimo atto è tanto aberrante quanto le motivazioni che ne stanno alla base, che risalgono ad una filosofia jihadista chiamata  “Jihad Al-Nikah” o più comunemente “Sex-jihad fatwa”, nata all’interno della comunità sunnita, che individua il ruolo delle donne, nel processo di costituzione dello Stato islamico, come confort sessuali dei guerrieri che combattono per la jihad. Nella filosofia sunnita la donna sceglie volontariamente questo ruolo, mentre per i Boko Haran, sunniti anch’essi, la costrizione equivale alla volontarietà.

Solo dopo l'uscita del video il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan, ha ammesso l’incredibile accadimento, chiedendo ufficialmente agli Stati Uniti un supporto per liberare le ragazze. C’è da dire che questo folcloristico personaggio, di religione cristiana, è il prodotto di una oligarchia di potere che gestisce la sua autorità in modo corrotto e manipolatorio, in un paese che rappresenta il colosso africano sia per dimensioni che per capacità produttiva, visto che è il primo esportatore di petrolio, che viene però raffinato negli Stati Uniti, per ritornare in Nigeria a prezzi triplicati.

In questa federazione di 36 Stati, 160 milioni di abitanti, 250 gruppi etnici, con un nord povero e musulmano (i tre quarti della popolazione vivono al di sotto della soglia di povertà), e un sud più ricco e cristiano, dove al saccheggio delle risorse e alla rovina dell’eco sistema di diversi villaggi (Eni e Shell hanno per anni estratto il petrolio senza sistemi di sicurezza), hanno assiduamente partecipato le grandi potenze occidentali.

In un paese così esistono vari livelli di aberrazione criminale, come quello legato alle organizzazioni mafiose nigeriane, che attraverso riti religiosi, ricatti e minacce alle famiglie deportano le ragazze in Europa per farle prostituire. E poi c’è il Mend, Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger, dove sono appunto concentrati i pozzi di petrolio, i cui guerriglieri rapiscono solitamente i dipendenti  europei delle grandi compagnie  a scopo di riscatto economico, dato che rivendicano i proventi del petrolio per il popolo del Delta.

Da un paese così scappano migliaia di persone per chiedere la protezione internazionale a quegli stati occidentali che hanno contribuito a massacrare la Nigeria, gli stessi stati che lamentano l’invasione degli emigranti africani, i quali, ad esempio,  hanno il torto di togliere il lavoro agli italiani…

Un paese così non merita neanche un approfondimento in un telegiornale. Un paese così non merita neanche qualche post su facebook da parte di quelle donne che fanno le sacrosante battaglie sulla violenza di genere.

 

Uno stato nello stato

La guerra civile in Siria si è allargata ad altri pezzi della regione mediorientale, coinvolgendo i due paesi tradizionalmente in guerra tra loro: Israele e Libano. L'aspetto particolare della questione è che il Libano è coinvolto solo attraverso un suo pezzo, quello Hezbollah, che rappresenta una sorta di Stato nello Stato. Cerchiamo di capire cos'è veramente..

Hezbollah è un partito politico libanese (letteralmente «Partito di Dio») di ispirazione musulmana sciita, con un braccio politico ed uno armato. E’ stato fondato nel 1982, dopo l’invasione israeliana del Libano, inglobando gruppi di resistenza come la Jihad islamica. La fonte di ispirazione era la rivoluzione degli ayatollah iraniani (anche loro sciiti). Il gruppo ha sempre ricevuto assistenza e addestramento dalla Repubblica islamica di Teheran. Gli Stati Uniti lo hanno incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche più pericolose.

Le azioni terroristiche più celebri attribuite a Hezbollah furono gli assalti con camion-bomba alle caserme americana e francese a Beirut nel 1983, oppure il dirottamento del volo 847 della Twa nel 1985, e ancora gli attentati contro l’ambasciata e un centro culturale israeliano in Argentina nel 1992 e 1994.

L’ala militare ha conquistato ampio seguito in tutto il Libano dopo la guerra con Israele nel Sud del Paese, nell’estate del 2006, quando i suoi miliziani tennero testa al potente esercito israeliano. Nel 2008 i guerriglieri conquistarono la parte ovest, cioè quella sciita, di Beirut, imponendo le loro condizioni al governo libanese.

L’Intelligence americana stima in circa diecimila i militanti e i guerriglieri addestrati. Dispongono di circa 40 mila armi leggere, migliaia di razzi anti-carro, missili terra-aria, alcuni missili anti-nave. Nel novembre 2009 gli israeliani hanno intercettato una nave carica di armi che, secondo Gerusalemme, provenivano dall’Iran. I servizi americani e israeliani, nel 2011, hanno accusato la Siria di aver fornito missili Scud al movimento sciita. Wikileaks rese noti alcuni cablogrammi del Dipartimento di Stato americano, che attribuivano a Hezbollah il possesso di modernissimi missili anti-aerei.

Hezbollah opera nelle zone a maggioranza sciita del Libano: Beirut ovest, il sud del Paese, la valle della Bekaa. Tra il 2006 e il 2008 il suo ruolo è cresciuto enormemente. Ha di fatto il diritto di veto su ogni decisione in merito al futuro del Libano, perché unisce una forza militare praticamente superiore a quella dell’esercito nazionale a un ampio consenso nella popolazione sciita. Alle ultime elezioni, nel giugno 2009 prese solo 13 seggi su 120: entrato nel governo di unità nazionale, con due ministri, lo abbandonò nel 2011.

Hezbollah controlla territorialmente gran parte del Libano, un paese, ricordiamolo, crogiolo di entità etniche e religiose, dove prevalgono tradizionalmente musulmani e cristiano maroniti, si pensi che il sistema costituzionale suddivide le cariche sulle tre maggiori religioni: il presidente della Repubblica maronita, il primo ministro musulmano sunnita, il presidente del parlamento musulmano sciita.

Il punto è che Hezbollah rappresenta la terza entità sciita del mondo islamico, una sorta di partito-stato, che insieme a Iran e Siria si pongono in conflitto con l'occidente. Il loro arsenale strategico e la loro ricchezza sono stati costruiti grazie all'appoggio della famiglia Assad: prima il padre poi il figlio.

L'attacco di Israele all'arsenale siriano destinato ad Hezbollah, compiuto ad inizio maggio, è la chiave di lettura del potenziale focolaio che si sta innescando in Medio Oriente, anche in funzione futura, quando cioè Assad crollerà definitivamente. A quel punto quale sarà la sorte di Hezbollah?

 

Il calvario di un popolo stremato

Raccontare una guerra come quella che affligge la Repubblica Democratica del Congo, non è cosa facile. In vent’anni ci sono stati cinque milioni di vittime ed eserciti di varie connotazioni che si sono susseguiti, tutti di matrice etnica.

In questa guerra non si capisce bene “chi sono i buoni e chi i cattivi”, anzi a dire il vero "sembra che ci siano solo cattivi". Da un lato c’è il Presidente Joseph Kabila, che nel 2001 ereditò il potere direttamente dal padre. egli  ha vinto le elezioni del 2011, grazie a evidenti  brogli, a sentire gli osservatori internazionali.

Il 23 marzo del 2009, il governo firmava un accordo di pace con il “Congresso nazionale per la difesa del popolo”, che prevedeva l’ingresso nell’esercito regolare del suo braccio armato e la sua trasformazione in partito politico. L’accordo non fu rispettato.

Il 4 aprile di quest’anno, alcune centinaia di ex membri del Cndp si sono ammutinati e hanno dato vita all’M23, di etnia tutsi, i cui capi, Bosco Ntaganda e Thomas Lubanga, sono ricercati dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra. Sono essi hanno lanciato la sfida a Kabila.

L’azione dell’M23 si sviluppa attorno alla regione del nord Kivu, di cui Goma è il centro nevralgico. E' l'area al confine con Uganda e Ruanda, dove, dopo il genocidio degli hutu nel 94, i tutsi presero il potere. Ambedue i paesi confinanti sembrano appoggiare i ribelli, ma non ufficialmente.

Il nord Kivu è la zona dei laghi, ricca di risorse minerarie, ma lasciata in povertà dal governo di Kabila. Dagli anni del genocidio fu campo di battaglia. Goma divenne una sorta di Gomorra, fra traffici e gestione del territorio in stile mafioso. Chi controlla Goma controlla l’intero paese, dal punto di vista economico.

Mentre nei passati giorni si combatteva a Gaza, Goma veniva riconquistata dall’M23, il quale, come nel suo stile, usava bambini soldato, giustiziava sommariamente chi non voleva combattere, stuprava centinaia di donne e generava l’ennesima fuga di migliaia di profughi.

Sia l’Uganda che il Runda si allineavano ufficialmente alla posizione dell’Unione Africana e delle organizzazioni internazionali, chiedendo ai ribelli il cessate il fuoco, e di arrestare l’avanzata verso Kinshasa, senza contropartite. Per adesso così è stato, ma quando finirà il calvario di un popolo stremato?

 

Un golpe fallito prima di iniziare

A due anni dalle primavere arabe, in Eritrea, uno dei paesi più martoriati del corno d’Africa, vi è stato un tentativo di colpo di Stato, da parte di un gruppo di militari ribelli contro il dittatore Isaias Afeworki, che ha in mano il potere dal 1993, anno dell’indipendenza dalla vicina Etiopia, con cui il paese è in guerra praticamente dalla fine della seconda guerra mondiale. I golpisti sembra che abbiano preso alcuni centri del potere di Asmara e siano entrati nella tv di stato da cui avrebbero chiesto la liberazione dei prigionieri politici e le riforme democratiche, ma l’esercito regolare sembra che stia reagendo.

In effetti quella dell’Eritrea è una delle più sconcertanti storie africane poiché, oltre ad essere un paese poverissimo, il suo popolo ha sopportato un conflitto con l’impero etiope a cui è stata annessa con la forza nel 1960. Da allora è stato un continuo conflitto di liberazione, fino al ’93 quando venne dichiarata l’indipendenza e fu eletto, durante le uniche elezioni svoltesi nella sua storia, Isaias Afeworki.

Ma, in un modo o nell’altro, lo stato di emergenza bellica viene mantenuto, così come il conflitto in essere con l’Etiopia, per questioni di confini. Sembra vi sia da parte di questo spietato autocrate la volontà di lasciare inalterato lo stato di belligeranza per mantenere il potere. Infatti per tale motivo, non sono mai state indette elezioni, si praticano arresti arbitrari e torture con estrema facilità nei confronti dei giornalisti quanto della popolazione, per non parlare dei processi e delle esecuzioni sommarie. Qualsiasi forma di dissenso viene soffocata attraverso le sparizioni.

Gli uomini che vogliono salvarsi la vita per non guerreggiare, l’Eritrea ha il secondo esercito più grande di tutto il continente africano, sono costretti a fuggire in paesi limitrofi o in Europa. L’Onu ha chiesto alla comunità internazionale di impedire i rimpatri forzati dei cittadini eritrei, poiché significherebbe morte sicura, eppure alcuni l’hanno fatto, mentre altri, come l’Italia, hanno respinto cittadini eritrei ai tempi dell’emergenza nord africana.