AI CONFINI DELLA CIVILTA' ALFABETA

 

LE STORIE DA RACCONTARE NELLA CIVILTA’ DAI SIGNIFICATI CAPOVOLTI

 

Storie da raccontare

Ci sono delle storie che andrebbero raccontate, come tante ce ne possono essere in questa società di visionari… Sono storie che hanno come protagonisti donne e uomini ognuno con le proprie tensioni morali. Donne e uomini che si spostano verso direzioni contemplate mentre il mondo gira vorticosamente... Storie che ne raccolgono altre, perché collegate da un comune denominatore.

Ma dove iniziano delle storie così? In effetti, del loro inizio si sa qualcosa, ma della loro fine nessuno ne sa niente… Si possono solo fare delle supposizioni. Di elementi ce ne sarebbero, e anche tanti. C'è la Società Globale ad esempio. La società delle merci. La società della quantità sulla qualità. La società elettrica, dove prodotti, servizi, informazioni, know-how si muovono all'interno del mercato, in cui tutto è condiviso in funzione dello scambio, e questo grazie ai processi di comunicazione.

Ci sono poi le rivoluzioni popolari in medioriente e in Africa del nord, dove attraverso "gli echi risonanti" dei social network, sono state defenestrate autocrazie e oligarchie autoritarie. E poi c'è la crisi del sistema economico occidentale, che ha messo in ginocchio l'Europa del sud, ma che rivela una crisi più generale, dove sulla finanza e sulle banche  si fondano le politiche globali e non sul benessere dei cittadini, dimostrando come il concetto di democrazia occidentale nasconda privilegi e ingiustizie, trasformandosi, almeno per parte dell’Europa meridionale, in oligarchia democratica.

Oggi più che mai sappiamo che società globale è anche interazione tra culture, linguaggi, codici che si uniscono e ci uniscono, in una unica soluzione di continuità, nel bene e nel male. E’ storia di incontri, è storia di sconfitte, è storia di conflitti, prima di tutto con noi stessi… Ma è anche storia di soprusi, di angherie, di vessazioni più o meno palesi, più o meno dichiarate. E’ la storia insomma di milioni di persone che continuano a vivere, in una situazione permanente di assenza. Ma qual è la forma più perversa di assenza in un mondo capovolto come il nostro? Forse l’assenza di limiti, secondo il tradizionale approccio alla pubblicistica weberiana sull’etica del capitalismo: la capitalizzazione non può avere un limite, e questo è un disegno scritto.

Allora, se sull’assenza di limiti si fonda la società contemporanea, questo determina un mondo sociale dove gli eccessi vengono in alcuni casi giustamente criminalizzati mentre in altri rientrano nelle comuni routines quotidiane, anche se vengono ben nascoste. Ecco che la sfera privata sfocia su quella pubblica in modo perverso, completando il processo sociale nel suo risultato ultimo…

Quale concetto etico di libertà può essere possibile nella società globale, escludendo il concetto di libero scambio? Forse quello proprio alla tradizione illuministica, che si sposa al concetto di liberazione. Etica e realtà sociale s’incontrano, costruendo un percorso della memoria, che si traduce, al tempo stesso, in un grido di dolore per quelle realtà sociali che sono state espropriate della libertà e dei diritti e che oggi aspirano alla liberazione. Possiamo pensarlo, forse, come un rito popolare che fa incontrare i giovani e gli anziani, come segno di un patrimonio comune da tramandare costantemente.

Se liberazione e libertà sono dunque dimensioni direttamente proporzionali, nel senso che per ottenere la libertà occorre un movimento di liberazione, oggi questo movimento si evolve in zone del mondo dove le principali garanzie dello stato di diritto non hanno cittadinanza. Diritti e cittadinanza sono gli elementi prodromici su cui la libertà si fonda, e la società occidentale, nel suo

complesso, dovrebbe farsene carico. Parliamo della società della solidarietà, la società dei mondi e dell'unione tra i popoli, che può oltrepassare i confini del mercato globale, per riscoprire i valori della civiltà contemporanea, nata dallo "spirito libertario dei padri fondatori", che in tre secoli hanno eretto gli Stati sulla base di Dichiarazioni e Carte dei valori dell'uomo. In questi tre secoli però i diritti di cittadinanza sono stati sistematicamente calpestati. E oggi, che ereditiamo comunque il patrimonio filosofico della civiltà occidentale, che possiamo semplicemente connotare anche in termini di civiltà alfabeta, non è che le cose siano cambiate poi di tanto.

 

Il mondo che esplode e le linee rosse

Oggi il mondo è già esploso sia in occidente che nei sud, tutti accomunati da una condizione sociale dove la distanza tra Potere e Cittadini è sempre più ampia. La crisi economica e finanziaria che sta contraddistinguendo il nostro tempo, mette l’accento sul modo in cui il Potere di decidere delle sorti dei popoli sia in mano alle oligarchie, democratiche o autoritarie, dove privilegi, anomie e guerre di religione, e quindi ribaltamento dei significati, si insinuano nelle diverse aree geografiche del pianeta.

Ecco che in questi contesti una linea rossa separa ciò che è lecito da ciò che non lo è. Il problema sta nel fatto che questa linea di separazione non è una dimensione oggettivata dalle leggi morali della civiltà alfabeta, ma si sposta a seconda delle situazioni sociali o politiche o economiche che vengono a determinarsi. E questo non è un problema esclusivamente legato ai sistemi oligarchici, democratici o autoritari che siano, ma a tutti i paesi a capitalismo avanzato e alle rispettive organizzazioni internazionali all’interno delle quali la linea rossa definisce degli interessi da proteggere.

Mantenere saldi rapporti economici con gli autocrati africani e mediorientali, precedenti alle rivoluzioni arabe, che si contraddistinguevano per la violenza soggiogante nei confronti dei loro popoli, nel disprezzo più assoluto della salvaguardia dei diritti civili e umani, era un fatto lecito, quindi al di qua della linea rossa. Durante le repressioni in Iraq prima e in Siria dopo, la linea rossa è stata definita dall’uso delle armi non convenzionali: è lecito massacrare il popolo, uomini, donne, bambini, ma non può essere lecito farlo con le armi chimiche… E qui il sovvertimento dei significati diventa prassi culturale, per cui i cittadini ricettori delle comunicazioni di massa, in occidente, non possono che entrare dentro il labirinto dei segni, intesi come linguaggi, e rimanerne intrappolati, poiché diventa impossibile trovare il nesso tra i valori della civiltà alfabeta e le prassi culturali, in questo caso, della realpolitik.

Se questa condizione parte dalle, per dirla con una parafrasi burroghsiana, “interzone del mondo”, luoghi sociali dove è ancora in atto la ricerca della libertà, intesa in senso illuministico, è proprio in queste interzone che viene a manifestarsi una delle più grandi e gravi contraddizioni della nostra epoca, poiché in questi territori, la linea rossa garantisce una sorta di neotribalismo, poiché, appunto, l’esercizio della violenza contro le popolazioni inermi diventa il principale strumento di controllo sociale, che sia esso mascherata da dogmi religiosi o meno, che sia esso definito da un sistema di potere costituito o meno.

Ma su questo versante c’è un altro ragionamento da fare, cioè quello relativo al meridione italiano, dove la ricchezza del sistema di vita post-industriale, capitalistico e tecnologizzato convive con il neotribalismo della gestione mafiosa del territorio. Infatti, in questi luoghi sociali esistono prassi estremamente simili a quelli del terzo e quarto mondo, nella gestione del territorio, poiché la legittimità del concetto di autorità, come quello di norma collettiva condivisa non vengono necessariamente riconosciti allo Stato ma a terzi. Il potere decisionale passa attraverso le oligarchie che si trasformano in lobbies, clan, famiglie, gruppi imprenditoriali che attraverso il sistema politico-burocratico canalizzano le risorse economiche. Ecco perché in questi luoghi sociali aumenta sempre di più la forbice tra chi ha tantissimo e chi ha niente o poco, processo che ha praticamente eroso la classe media, e che la crisi economica ha semplicemente acuito.

Gli elementi comuni tra occidente e sud del mondo possono essere, quindi, sintetizzati nell'anomia sociale, nell'assenza dei diritti di cittadinanza, nell'esautoramento dello stato di diritto e quindi dei luoghi di legittimazione del potere istituzionale, e soprattutto nella presenza di eserciti irregolari, legati a famiglie, che, in modo omnicomprensivo, possiamo definire mafiose, e che concorrono, con gli altri gruppi, alla gestione delle risorse economiche. Quest'ultimo elemento è quello più connotativo, poiché la presenza di eserciti irregolari o in regime di monopolio o antagonisti tra loro, ci riporta alla società tribale, cioè ad una società dove le tribù si combattono sul territorio per l'affermazione del proprio potere.

Il sistema di potere di tipo mafioso si contraddistingue per l’esercizio della violenza sul territorio, attraverso eserciti irregolari che hanno le loro zone protette, quartieri ghetto nelle città del sud Italia, le banlieu marsigliesi, le favelas ai tropici, gli slums in Asia o i clan di ribelli nell’africa sub sahariana... Il fatto che il sistema oligarchico sia presente, con modalità istituzionali differenti, nei paesi mediterranei del sud, vedi Italia e Grecia o anche balcanici, come l’Ungheria e altri paesi dell’ex impero sovietico, come tra i paesi cosiddetti sottosviluppati, ci porta a ragionare sull’elemento che fa da sintesi tra questi territori, geograficamente ed economicamente lontani, e che si identifica con lo sviluppo storico di questi paesi: l’anomia, cioè assenza di norme o regole. Se l’anomia è un concetto sociologico, dal punto di vista sociale, è possibile tradurlo in termini di illegalità diffusa o sistemica o ancora meglio nei termini di esautoramento dello stato di diritto. Cioè, laddove lo stato di diritto viene esautorato non esistono più confini tra lecito e illecito, e come abbiamo visto non dipende dal tipo di sviluppo economico, ma dal tipo di evoluzione culturale che quel paese ha avuto. E’ così che la linea rossa si sposta a seconda che le situazioni sociali lo richiedono.

 

Il sovvertimento dei significati

In questi paesi avviene il sovvertimento dei significati legati alla civiltà alfabeta, passati, come dicevamo prima, da rivoluzioni epocali e dichiarazione dei diritti dei popoli. Nella civiltà alfabeta contemporanea, lo statuto etico su cui si fonda la mission del sistema politico ascrive i compiti della classe politica all’interno di un semplicissimo concetto: il miglioramento delle condizioni di vita del popolo. Nei paesi anomici, il ribaltamento del significato di questo concetto è molto chiaro: il miglioramento delle condizioni personali di chi ha potere decisionale e quindi gestisce risorse economico-finanziarie. Ecco che alterando il significato si va ha “corrompere” il senso stesso di ciò che nella civiltà alfabeta rappresenta lo stato di diritto. E’ gioco forza che la corruzione dello statuto etico non può che produrre corruzione diffusa a tutti i livelli della stratificazione sociale, per cui con questo semplice meccanismo è possibile spiegare perché un paese come l’Italia, terza nazione dell’eurozona, possa avere un debito pubblico da paese “sottosviluppato”.

Ma il sovvertimento dei significati inevitabilmente innesca un meccanismo a catena per cui vengono coniati dei termini che mostrano un evidente scollamento tra significante e significato. Prendiamo il concetto di antipolitica…

Questa è una parola che da qualche tempo rimbalza qua e là, tra le bocche dei politici italiani o le pagine dei giornali. Spiegava Roberto Saviano, in una delle sue apparizioni televisive, come le parole siano state espropriate dei loro significati. Parole importanti come famiglia e onore ad esempio sono diventate sinonimi di mafiosità. Al di là di qualsivoglia interpretazione semiotica, la verità è che il rapporto tra significante e significato, cioè tra piano del contenuto e piano della forma di sassuriana memoria, non è più legato allo specifico linguistico di un paese ma piuttosto al contesto storico-sociale in cui si evolve.

Il concetto di antipolitica riporta a significati legati alla negazione della politica quale strumento per la salvaguardia del senso di comunità, del bene pubblico, del benessere sociale. Perché è di questo che la politica dovrebbe occuparsi, che sono appunto gli elementi fondamentali dello statuto etico su cui si regge un sistema politico liberal-democratico… Andando a spulciare alcuni rapporti statistici tra Istat ed Eurobarometro, tanto per restare legati alla vita quotidiana di ognuno di noi, esce fuori una fotografia incredibile, al di là della crisi economica. Il 52 per cento delle pensioni è sotto i mille euro, il 16 per cento dei minori è in povertà relativa, gli stipendi sono i più bassi e le tasse sono le più alte tra i paesi industrializzati, le tasse sul lavoro sono le più alte d’Europa, e il livello di evasione fiscale è il più alto tra i paesi occidentali. Due persone su tre entrano nel mercato del lavoro per clientela, ecco perché, oltre al tasso catastrofico di disoccupazione, vi è una larga fetta di popolazione giovanile che non avendo rapporti di clientela familistici, rinuncia a cercare lavoro. A ciò si aggiunga che in Italia il dieci per cento della popolazione ha in mano quasi la metà delle risorse economiche del paese, mentre al novanta per cento restante tocca l’altra metà. Questo si traduce inevitabilmente con il tracollo della classe media, e come tutti i libri di scuola e università insegnano, i sistemi capitalistici funzionano quando la classe media è quella economicamente più forte.

Praticamente cinque regioni della penisola hanno i territori controllati da apparati militari irregolari, mafia, camorra, ndrangheta, dove esercitano il controllo dei sistemi economici illeciti, maggiore del prodotto interno lordo lecito: ma questa è storia antica, anzi antichissima. Una storia antica con prove e riscontri sul fatto che questi eserciti irregolari hanno il “lascia passere” del sistema politico, il quale anziché puntare sul miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini utilizza i fondi pubblici per il proprio arricchimento: dalla Cassa per il Mezzogiorno al Fondo Sociale Europeo.

I parlamentari italiani sono tradizionalmente i più pagati d’Europa, dopo un referendum che aboliva il finanziamento pubblico dei partiti, hanno cambiato il nome chiamandoli rimborsi elettorali. Entrare nel parlamento italiano significa “fare i soldi”, anche perché i partiti, proprio per questi meccanismi e dunque per l’ingente mola di danaro che gestiscono, senza nessun obbligo contabile, poiché non sono soggetti giuridici, assomigliano più a dei sistemi bancari che non ad organizzazioni politiche.

Per tali ragioni, dalla pubblicistica, questo sistema è stato descritto in termini di “casta”. E le caste difficilmente lasciano le proprie “rendite di posizione”. Ecco perché è tecnicamente impossibile che in Italia ci possa essere un ricambio generazionale del sistema politico, come in ogni sistema liberal-democratico che si rispetti, dove una volta finito il proprio ciclo vitale gli uomini politici, che hanno governato, escono di scena, pur restando dentro le istituzioni. Inoltre, come ogni sistema oligarchico, esso è assolutamente incapace di leggere la realtà poiché è concentrata sul mantenimento della propria realtà. Ciò significa che le leggi che vengono prodotte anziché migliorare le condizioni di vita della gente, il più delle volte, le peggiorano.

Due esempi per tutti… Chi si ricorda della legge Biagi, o per meglio dire “pseudo” Biagi? Una legge che era stata salutata come la panacea di tutti i mali, che avrebbe migliorato il mondo del lavoro italiano… E cosa hanno fatto gli oligarchi? Hanno inventato miriadi di forme contrattuali, mantenendo precarietà e vassallaggio, hanno messo l’obbligo per il lavoratori autonomi di aprirsi le partite iva, aumentandone le spese di gestione e le tasse. Per un lavoratore autonomo che fattura 15000 euro l’anno cosa significa aprire una partita iva, migliorare o peggiorare le condizioni di vita? Oppure, cosa significa per un lavoratore autonomo essere “assunto informalmente” da un’azienda attraverso la partita iva, migliorare o peggiorare le sue condizioni di vita?

E che dire della legge contro l’immigrazione, con la creazione dei CIE, dove chi non è in regola con il permesso di soggiorno viene arrestato. Bisogna ricordare che attraverso la “cultura dell’accoglienza” che ha generato questa mostruosa norma, sono stati respinti cittadini dell’Africa sub sahariana in possesso dei requisiti per la domanda di protezione internazionale, sancita dal diritto internazionale, vedi Convenzione di Ginevra del ‘51, e questo avveniva quando i dittatori, prima della primavera araba, erano partner privilegiati dell’Italia, i quali hanno accolto i respinti nelle loro galere tra torture, stupri e massacri silenziosi; quei respingimenti sono stati poi sanzionati dalla Corte di giustizia europea. A ciò si aggiunga il ribaltamento dei significati prodotto dalla destra italiana, per far leva sulle percezioni del popolo, relativamente alla confusione tra migranti economici e profughi, due fenomeni completamente diversi, che hanno statuti differenti: l’accoglienza e la salvaguardia delle persone che fuggono da paesi dove rischiano l’incolumità fisica, è un dovere prima che morale giuridico, definito tale dall’articolo dieci della costituzione italiana. Tra trattati internazionali e costituzione italiana che solcano una strada che non può essere mistificata, non si è mai pensato alla formulazione di una legge organica sui profughi che adotti le “leggi supreme” sulla protezione internazionale.

Ma un’altra brevissima storia vogliamo raccontare, quella di un giovane che vuole fare l’imprenditore, ammesso che abbia dei soldi o delle rendite familiari che possano garantire i crediti bancari, perché viceversa nessuna banca lo finanzierebbe. Ecco, quel giovane imprenditore dovrà fare una via crucis di mesi o anni tra le carte bollate e gli adempimenti burocratici, poiché solo per spostare un fascicolo da una scrivania ad un'altra in un ufficio della pubblica amministrazione qualsivoglia possono passare mesi. Se quell’imprenditore vive in Sicilia prima o poi gli verrà offerto l’aiuto di questo o quel boss per “risolvere la situazione” per poi tornare il favore a futura memoria, vita natural durante, se invece vive in Lombardia basta una o più mazzette a questo o quel impiegato di turno o politico di riferimento.

Come direbbe qualcuno, un quesito sorge spontaneo: la fotografia di un paese come questo è più simile alle nazioni industrializzate di tipo liberal-democratico o piuttosto agli stati oligarchici africani o sudamericani, in versione anni settanta/ottanta? La domanda è ovviamente retorica, perché qui siamo di fronte ad uno strano caso di "oligarchia mediterranea", dove, appunto, viene corrotto lo statuto etico del sistema politico, non più legato al miglioramento delle condizioni di vita del popolo, ma all’arricchimento delle oligarchie in quanto tali.

In termini ancora peggiorativi è lo stesso modello costruito in Grecia all’indomani della dittatura dei colonnelli, che ha portato negli ultimi anni l’establishment a truccare i conti delle leggi di bilancio. Ma è anche la condizione della Spagna, con la differenza che lì vi è il ricambio della classe dirigente, dove la corruzione dello statuto etico del sistema politico sta portando il paese verso la catastrofe. Ecco perché possiamo parlare in questi casi non di sistemi libelral-democratici ma di oligarchie mediterranee, che sono poi quelle che rischiano di essere espulse dalla zona euro, proprio perché la crisi internazionale ha evidenziato le loro difformità.

Abbiamo allora la certezza, per ritornare alla domanda iniziale sul significato della parola “antipolitica”, che essa non si riferisce al significato semantico del termine, perché se così fosse in Italia l’antipolitica sarebbe rappresentata proprio dallo stesso sistema politico, costruito sulle fidejussioni bancarie, sulle rendite di posizione delle “famiglie” interne ai partiti e sulle carriere dei singoli parlamentari. Anche qui siamo in presenza di un ribaltamento dei significati.

Ma c’è un’altra storia da raccontare. Ancora un’altra storia di sovvertimento dei significati. Si perché in un paese anomico, a sistema oligarchico, dove lo stato di diritto viene interpretato, le insicurezze economiche e sociali, si trasformano meccanicamente in insicurezze di tipo culturale e forse anche esistenziale. C’è da dire che un popolo che si rende complice insieme alla propria classe dirigente del saccheggio del proprio paese, rispetto al disprezzo della legalità, rispetto all’uso della corruzione come modus operandi quotidiano, rispetto al sovvertimento dei valori di una società evoluta, certo è che quello non può essere sicuramente essere considerato un popolo virtuoso.

Un popolo non virtuoso è quello che cerca le scorciatoie ad ogni costo, che pulisce in casa propria ma sporca in casa degli altri, che adula i potenti portatori di vizi e non di virtù istituzionali, un popolo come questo è un popolo che a distanza di un paio di generazioni si trasforma dall’essere oggetto di razzismo ad essere razzista. E’ in qualche modo la raffigurazione di popolo socialmente cannibale, che identifica un migrante non come un qualcosa che è parte di un fenomeno di massa, legato a genocidi, persecuzioni ecc; fenomeno determinato, tra l’altro dal benessere collettivo dei paesi occidentali, mantenuto fino alle estreme conseguenze… Invece no, questi stranieri che vengono in Italia sono un fastidio per il benessere perduto. Poi, certo, se si possono sfruttare fino all’osso, se si possono far vivere in condizioni disumane, e se ci si può guadagnare, visto che sono i soggetti fragili della società, perché no…!

 

Gli esodi di inizio millennio e il labirinto dei segni

Quale può essere allora un punto di partenza per ragionare sugli esodi di inizio millennio? Una proposta potrebbe essere quella di partire dal concetto di percezione sociale.  Perché sembra che l’opinione pubblica non possieda una precisa cognizione di ciò che succede a quelle persone “diverse da loro“ che incontrano per le strade o sull’autobus o al supermercato o ancora sullo stesso pianerottolo. E questo, oggi, diventa uno dei temi centrali sull’inclusione sociale nel nostro paese. Anche perché l’impoverimento diffuso delle condizioni di vita dei cittadini italiani aumenta le fratture nei confronti di chi proviene da altri paesi.

C’è da dire che l’iconografia del continente africano riporta alla mente lo stereotipo della fame nel mondo. Si, perché il tema della scarsità di risorse, non riguarda la maggioranza delle persone “dalla pelle scura“ che incontriamo sull’autobus o sul pianerottolo. Molte di quelle persone, sembrerà strano, arrivano da paesi dove le risorse ci sono. La Nigeria ad esempio, è il sesto paese al mondo produttore di petrolio, ma lì non c’è benzina a basso costo, dato che il Paese dipende dall'estero per gli approvvigionamenti di carburante, e i proventi delle ricchezze prodotte dall’estrazione petrolifera rimangono nelle mani delle gerarchie governative.

In Nigeria c’è una delle più grandi diaspore del nostro tempo. 150 milioni di abitanti, 400 etnie, una miriade di lingue diverse fanno da contorno allo scontro tra ceppi etnico-religiosi: a nord regna la sharia e a sud il cristianesimo. Ma c’è anche la violenta ribellione del Mend, gruppo armato del Delta, contro le grandi compagnie petrolifere, che hanno annientato l’ecosistema per l’assenza dei meccanismi di sicurezza degli impianti, trasformando in deserti paludosi interi villaggi, dove pesca e agricoltura rappresentavano il sostentamento per migliaia di persone. E che dire del raket di Benin City, dove violenza, riti wodoo, superstizioni, sono gli strumenti per la riduzione in schiavitù per migliaia di ragazze. E che dire della classe politica nigeriana, che fa della corruzione e della violenza la sua ragion d’essere, come spesso avviene durante le elezioni, dove i partiti che gareggiano assoldando bande armate contro la popolazione.

La fuga da un paese come questo, riporta, ancora, alla Convenzione di Ginevra del 1951, dove viene sancito l’obbligo dei paesi all’ospitalità per chi rischia l’incolumità fisica per motivi religiosi, etnici, politici. Quale significato allora è possibile dare al concetto di inclusione sociale, se questa è percepita come una minaccia per il mio mancato benessere? Ecco, forse è proprio questo il punto, cioè lo stretto rapporto tra percezione sociale, senza conoscenza, e insicurezza innesca l‘ancestrale fobia: ci si addentra nel labirinto dei segni, perdendosi nelle trappole del linguaggio e dei significati.

C’è dunque una frattura a livello simbolico tra inclusione ed esclusione sociale di cui il sistema mediatico ne è sicuramente la cassa di risonanza. Se pensiamo che in pochissimi anni le città italiane, soprattutto a causa delle spinte neotribali del continente africano, ma non solo, sono state “travolte“ progressivamente da esodi, dove interi popoli vengono perseguitati, questo ha generato una trasformazione della morfologia sociale stessa delle città, dove persiste una mancata visione del modo in cui i territori devono rispondere a queste trasformazioni.

L’assenza di strategie territoriali, rappresenta quindi la causa originaria di tutti i problemi legati all’inclusione sociale poiché fisiologicamente dove c’è un’assenza di pianificazione territoriale emarginazione, violenza ed esasperazione sociale implodono nel territorio stesso. Se a questo si aggiunge la stereotipia creata sull‘equazione tra straniero e deviante, diventa semplice trasferire l’ “assenza“ della dimensione pubblica nella dimensione privata, morale ed esistenziale, per cui dal labirinto non si riesce più ad uscire.

Una “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani“ condotta dall’Università La Sapienza di Roma 3 nel 2008, attraverso un’analisi qualitativa dei principali network e dei maggiori quotidiani nazionali fu rivelatrice su come la percezione del popolo italiano, in merito ai temi inerenti ai processi migratori, viene stimolata dai mezzi d’informazione. I risultati sono una chiave di lettura straordinaria del modo in cui oggi si porgono all'attenzione dell'opinione pubblica l’immagine, le argomentazioni ricorrenti, il linguaggio e il dibattito sui migranti.

“La ricerca conferma i risultati delle rilevazioni svolte negli ultimi 20 anni. L’immagine dell’immigrazione fornita dai mezzi d’informazione sembra congelata. Appare sempre ancorata a modalità, notizie e stili narrativi e a tic e stereotipi esasperatamente uguali. Le notizie di cronaca nera o giudiziaria sono ancora maggioritarie nella trattazione dei quotidiani raggiungendo quasi il 60% nelle edizioni dei telegiornali, un livello mai rilevato in passato... Il ritratto delle persone straniere immortalato dai media si può, quindi, così riassumere: è spesso un criminale, è maschio (quasi all’80%) e la sua personalità è schiacciata sul solo dettaglio della nazionalità o della provenienza “etnica” (presente spesso nel titolo delle notizie). Quest’ultima caratteristica costituisce anche il legame esplicitamente riferito dalla testata per spiegare gli avvenimenti e collegarli con altri... L’immigrazione viene raramente trattata come tema da approfondire e, anche quando ciò avviene, è accomunata alla dimensione della criminalità e della sicurezza: ad esempio, sul totale di 5684 servizi di telegiornale andati in onda nel periodo di rilevazione, solo 26 servizi affrontano l'immigrazione senza legarla, al contempo, a un fatto di cronaca o al tema della sicurezza.

E qui ritorniamo a parlare di segni, di linguaggi e di come essi siano intimamente legati ai processi sociali. E fin dall’antica Grecia che attraverso il linguaggio, in quel tempo c’erano le messe in scena delle tragedie, veniva codificata l’identità sociale di una comunità attraverso la costruzione dei miti. Oggi, nel contesto delle società anomiche occidentali, in Italia in particolare, i mezzi di comunicazione di massa, nella loro dimensione informativa, impongono, attraverso il linguaggio, una visione del mondo distorta, dove il rapporto tra gerarchia delle notizie e il valore pubblico delle stesse, viene alterato.

C’è una piccola e semplice storia che spiega molto bene questi processi di distorsione. E‘ la storia di Faith Aiworo, uscita fuori, nell’estate del 2010. Proviamo a schematizzarla grazie ad un decalogo elaborato da un sito web, “Donne Pensanti“, che si occupò del fatto, scomponendolo attraverso un semplicissimo schema semiotico…

Faith ha 23 anni e quattro anni fa ha ucciso un potente connazionale, per difendersi dai suoi tentativi di violenza sessuale.

E’ stata condannata a morte nel suo paese (che non contempla per le donne l’attenuante della legittima difesa).

E’ scappata dal paese che la vuole morta.

Si è rifugiata a Bologna credendo di essere al sicuro.

Hanno tentato di violentarla nuovamente.

Ha denunciato il suo aggressore.

E’ stata fermata dalla Questura.

E’ stata rimpatriata nel suo paese.

In questo momento forse è già stata impiccata.

Questa notizia, lanciata dalle agenzie, non è stata ripresa da nessun mezzo d’informazione, se non da poche edizioni web di alcune testate. Eppure, a ben guardare, avrebbe tutte le caratteristiche per essere ospitata nei media, sia per il suo valore pubblico che per essere lo specchio del nostro tempo. Ma allora perché la storia di Faith non è stata raccontata? In qualsiasi altro paese evoluto, dove i sistemi di produzione dell’informazione non sono distorti, questa notizia avrebbe probabilmente fatto clamore?

Nel 20013 l’Osservatorio di Pavia insieme a Medici Senza Frontiere hanno elaborato un rapporto che descrive come il sistema informativo italiano sia inadeguato rispetto al contesto internazionale. Questo perché le notizie sugli eventi catastrofici, che siano provocati dalla natura o dai conflitti bellici nel sud del mondo, non vengono riportati praticamente da nessun telegiornale italiano, nonostante il desiderio del pubblico ad essere informato e, non ultimo, il dovere di informare. I dati di questo rapporto sono sconcertanti, al di là del fatto che quotidianamente lo sconcerto assale chi assiste, in modo non culturalmente omologato, ai telegiornali italiani. L’indagine  prende in esame la copertura delle crisi umanitarie nei principali notiziari di prima serata dei sette network generalisti, i quali, nel 2012, hanno dedicato solo il 4 per cento dei servizi a contesti di crisi, conflitti, emergenze umanitarie e sanitarie.

Contemporaneamente un’altra recentissima ricerca dell’Eurisko sottolineava che il 64 per cento del campione considerava troppa l’informazione politica presente nei media, e il 60 per cento lamentava poca informazione sulle organizzazioni umanitarie e il 78 per cento considerava eccessiva la quantità di gossip nella gerarchia delle notizie.

Ma c’è un’altra storia che si va ad incrociare con questi dati, questa volta di cronaca nera, che riguarda la carta stampata. La storia di sei parlamentari italiani che fanno pure gli editori e che hanno percepito indebitamente dallo Stato finanziamenti per i loro giornali, per un ammontare di 110 milioni di euro, e per questo sono stati messi sotto inchiesta.

Che relazione c’è, allora, tra le ricerche sui media e le truffe degli editori/parlamentari? La relazione c’è ed è molto stretta e riguarda l’interconnessione simbiotica tra il giornalismo italiano ed il sistema di potere: l’una l’interfaccia dell’altra. Gli elementi li abbiamo già snocciolati… L’Italia è l’unico paese al mondo il cui lo Stato finanzia in modo massiccio gli organi d’informazione, e la quantità di giornalisti che passano a fare politica nelle istituzioni è altissima. Senza parlare della partigianeria politica, ormai ufficializzata a trecentosessanta gradi, da parte di tutti i giornali, tranne rarissimi casi, che nei dibattiti pubblici emerge in modo palese, tanto che non si capisce la differenza tra un giornalista ed un politico.

Se la simbiosi tra media e potere è una tradizione storica del giornalismo italiano, negli ultimi anni ha assunto una densità parossistica, quando si pensa soprattutto ai dossieraggi ad orologeria che escono fuori contro questo o quell’avversario del referente politico. Ma anche questo spiega perché tre quarti dei notiziari sono fermi sulla cronaca politica, anche quando nel mondo succedono eventi straordinari o conflitti bellici che investono prima di tutto le popolazioni. Durante i giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica italiano in Cina un terremoto uccise centinaia di persone e in Italia non se n’è saputo niente.

Ma cosa ancora più grave è l’effetto “spirale del silenzio” sui temi fondamentali della nostra vita che sono collegati sia geograficamente che socialmente. Si perché se in Somalia o in Nigeria o in Eritrea o in Congo o in Sudan o in Costa d’Avorio o in Etiopia, piuttosto che in Ciad, interi pezzi di popolazione vengono sterminati, i mezzi di comunicazione di massa hanno il preciso dovere, poiché il loro statuto etico lo impone, di parlarne e anche tanto. Parlarne perché la pressione dei mezzi d’informazione può fare la differenza nella difesa delle popolazioni civili. Parlarne perché quando arrivano i barconi a Lampedusa gli italiani devono sapere perché donne, uomini, bambini sono costretti a fuggire per cercare riparo in altri luoghi. Al di là del fatto che quello italiano possa essere un popolo razzista, almeno non accampassero scuse costruite sulla loro ignoranza…

Ecco perché la responsabilità dei mezzi d'informazione italiani è altissima sui temi legati al razzismo in questo paese. E la stessa responsabilità legata alla corruzione come pratica diffusa in tutta la stratificazione sociale: in qualsiasi paese avanzato le varie Tangentopoli sarebbero emerse in seguito all’azione dei mezzi d'informazione, mentre in Italia, paradossalmente, le prerogative del quarto e quinto potere sono state esautorate dal terzo potere, cioè dalla magistratura. Ma questo ci riporta al tema iniziale cioè al sovvertimento dei significati della civiltà alfabeta, resa possibile proprio perché l’interazione tra sistema oligarchico e mezzi d’informazione è così intimamente legata “da fare squadra insieme…”

Ma allora, a proposito di etica e di libertà quale visione del mondo i popoli dovrebbero condividere? Forse una dimensione visionaria ci può venire incontro, cioè di pensare al mondo come ad un luogo sociale dove sia possibile sentire i sapori della solidarietà, il senso dell'aggregazione come valore generazionale. Un “raduno” popolare dove non esistano differenze, dove tutti possono incontrarsi con le loro storie, le loro vite, ricordando il senso stesso della libertà. Si tratta di fratellanza delle emozioni, quelle più semplici, più naturali. Uomini, donne, vecchi, bambini, uniti dal sorriso e dall'allegria, possono incontrarsi in una sorta di armonia popolare. Un sapore d'altri tempi che plana nelle strade, come se il tempo si fosse fermato.

Ma la libertà può anche essere’ un luogo sociale dove diverse etnie possono incontrarsi nel segno della libertà e dell’uguaglianza, non termini alternativi l’uno all’altro, ma complementari… Un luogo dove i muri vengono abbattuti, e tutto ritorna nella giusta dimensione, in nome dell'umanità perduta, e della solidarietà ritrovata. Un luogo dove riprendere il nesso che unisce gli uomini liberi alla collettività, per ricordare che gli uomini la libertà la debbono sentire dentro. Deve essere guida delle loro azioni, anche quando il potere cerca d'impedirlo. Quel potere che spesso fa leva sui bisogni, tesi a consumare merci, che mediaticamente si trasformano in simboli. Ma i simboli veri sono ben altri.

In termini transculturali questo significa raccontare il nostro tempo, con le sue contaminazioni, di cui spesso non ci rendiamo neanche conto, in una sorta di viaggio a ritroso, che ci permetta di guardare agli “stranieri“ come cittadini portatori di diritti negati nei loro paesi d’origine. Sappiamo che i valori della civiltà liberale si fondano sulla possibilità per tutti di essere cittadini liberi e di difendere la libertà altrui, perché questo significa difendere la nostra stessa libertà... Così ci hanno insegnato i padri fondatori dello stato di diritto, e così continuano a raccontarci chi di quei padri fondatori ne vanta l'eredità. Se così stanno le cose, dunque, comprendere le vere ragioni di chi la libertà di essere cittadino non la possiede, oggi è il principale dovere delle donne e degli uomini liberi della nostra epoca.

 

Le piccole risonanze disseminate sui territori

Al di là dei referti sociologici che descrivono la società come liquida piuttosto che evanescente, abbiamo visto come i processi di comunicazione nel nostro tempo si siano ammalati. I loro germi generano effetti riconducibili all’apnea cognitiva per i processi mediatici e all’apnea sociale per la mancata risposta ai bisogni territoriali

Se è possibile intercettare i principali nodi problematici, legati al labirinto dei segni, nella diffusione delle informazioni da parte dei mass media, riuscire a comprendere come viene distorta la rappresentazione della realtà e come, conseguentemente, viene generata nell’opinione pubblica un’incapacità di lettura dei fenomeni sociali, spostando qua e la le linee rosse a seconda delle diverse situazioni sociali che si presentano, ci porta a pensare a quali possibili anticorpi possono essere innescati

C’è una espressione a noi cara che in qualche modo esprime una chiave di lettura sul tema, quella delle “piccole risonanze”, cioè di interventi sul territorio, veicolati da progetti anche piccoli, che vadano ad intervenire sui bisogni reali, che in genere il sistema pubblico non riesce a riconoscere. Inondare il territorio di piccole risonanze, magari coordinate all’interno di un disegno strategico, in quei territori che hanno una classe dirigente che riesce a farlo, è l’unico modo per far fronte alle linee rosse dentro il labirinto dei segni. L'approccio utilizzato per la stesura dei progetti si dovrebbe fondare su due parole d'ordine: ecologia e sostenibilità.

Considerato che la gestione del territorio da parte del comparto pubblico italiano si è dimostrata, in questi anni, nella stragrande maggioranza delle città, assente di strategie tese a guidare i cambiamenti socio-demografici, oggi il tema legato al rapporto tra sviluppo territoriale e inclusione sociale di per sé è superato dalla cronaca, poiché per il tipo di evoluzione che le fenomenologie migratorie hanno assunto, se dovessimo fare un ragionamento pubblico afferente alla contemporaneità, dovremmo parlare non più di inclusione ma di trans-culturalismo.

Il concetto di transcultura rimanda a qualcosa che attraversa la cultura. Pertanto, in questo contesto, deve riferirsi alla possibilità di promuovere e salvaguardare le specificità delle singole culture, mirando però all’individuazione degli elementi universali, comuni a tutti gli esseri umani, a prescindere dal colore della pelle, dalla lingua, dalle modalità di pensiero o dalla religione. Le culture “non si attraversano” mai da sole, ma necessitano sempre di essere veicolate dai soggetti che ne sono portatori.

Ecco perché diventa essenziale in questo tempo storico pensare ad un sviluppo territoriale o locale di tipo transculturale, dove le singole culture nazionali, che si ritrovino insieme su un medesimo territorio, possano partecipare insieme allo sviluppo socio-economico del luogo di accoglienza, facendo salve le proprie specificità culturali, per metterle a disposizione della comunità tutta, in una sequenza di interazioni e contaminazioni.