La “malaintegrazione” dei migranti retroscena del disastro europeo

 

Viaggio dentro i processi d’integrazione europei dei rifugiati, tra buone prassi e cattive politiche che contribuiscono a scatenare odio e xenofobia

 

 

 1 settembre 2015

By Claudia Sottimano

Mentre ventimila persone a Vienna mostrano solidarietà ai richiedenti asilo, in una manifestazione che termina davanti al Parlamento, in altri paesi europei monta l’odio per chi fugge da guerre e persecuzioni.

 

 

L’OECD e la Commissione Europea hanno pubblicato congiuntamente un rapporto sull’attuale situazione di integrazione dei migranti provenienti da Paesi extra UE: al 2014 erano poco meno di 20 milioni di persone, rappresentanti il 4% del totale della popolazione europea. Nonostante il 53,4% di questi in età lavorativa fosse occupata, il rapporto ha sottolineato comunque un ampia divergenza con la percentuale di cittadini impiegati sempre in età lavorativa ma aventi cittadinanza europea (65,3%). Tale report ha dichiarato come un migrante su due proveniente da Paesi Terzi fosse in una situazione di precarietà abitativa o ad alto rischio di esclusione sociale; ha inoltre confermato come questa categoria fatichi notevolmente a valorizzare le proprie competenze, ritrovandosi spesse volte a svolgere lavori per i quali sono troppo qualificati.

Le problematiche rispecchiate da queste statistiche derivano dall’assenza di una comune politica di integrazione a livello europeo. L’UE, infatti, non ha un piano di integrazione condiviso tra i vari Stati membri; piuttosto, punta a fornire incentivi e incoraggiare i Paesi ad elaborare politiche efficaci e funzionali in materia di immigrazione, nonché programmi di accoglienza e piani per richiedenti asilo e rifugiati sul territorio nazionale. Incoraggia inoltre gli stati a sperimentare buone prassi, modelli e pratiche di integrazione e a condividerle con gli altri membri UE.

 

Secondo uno studio dell’UNHCR ad oggi il modello di integrazione più soddisfacente e generalmente condiviso da tutte le realtà europee è quello “a doppio senso”, dove ai rifugiati vengono dati gli strumenti per adattarsi alla società ospitante, la quale fornisce un supporto nell’ambito di casa, salute, formazione, lavoro, accogliendo e valorizzando al contempo i tratti culturali del soggetto ospitato. In questo modo il processo di integrazione è un fenomeno di lunga durata, che da la possibilità ai rifugiati di adattarsi al contesto circostante senza dover rinunciare alla propria cultura.

 

All’interno di questo framework ormai condiviso, però, gli Stati europei rispondono in maniera differente alle sfide e alle problematiche poste in essere dai fenomeni migratori, soprattutto perché devono tenere conto di propri fattori culturali, economici e sociali che variano sensibilmente da nazione a nazione, e che conseguentemente utilizzano un diverso peso nella scelta delle risorse da impiegare. Ogni stato, o meglio, alcuni stati più di altri cercano di elaborare e concretizzare buone pratiche e modelli di integrazione, al fine di poterle riportare in altre realtà europee e disseminare i soddisfacenti risultati ottenuti. Nonostante ciò, le statistiche di cui sopra sono ancora piuttosto scoraggianti e indicano che ancora pochi stati si stanno impegnando a fondo in politiche e piani di vera ed autentica integrazione.

Per una questione di sintesi ne segnaliamo due tra i più significativi…

L’ “Housing for Young Mothers and Seniors”, nella città di Beekmos, nei Paesi Bassi. Qui si è infatti realizzato un modello di social housing dove sono state previste più categorie destinatarie: attraverso il matching di gruppi diversi della popolazione con analoghi o compatibili bisogni nella stessa struttura, aumentando l’incidenza dell’inclusione sociale, e rendondo possibili aiuti e pratiche di reciproca assistenza. C’è poi il caso del “Magdas Hotel” di Vienna, gestito dalla Caritas locale, dove i fuoriusciti dai progetti di protezione internazionale hanno una possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro, assunte presso la struttura per la gestione dell’hotel nella sua quotidianità, in molteplici mansioni, dallla gestione delle camere ai servizi di reception e accoglienza.  

 

 

Guardando alla specificità del contesto italiano, sembra caratterizzarsi più che per una cornice politica nazionale unitaria, per una forte delega gestionale ai territori: agli enti locali, agli organismi del terzo settore e alle istituzioni religiose.

Con il progetto Sprar si è cercato di avviare un sistema di ordinaria accoglienza, aumentando notevolmente la sua capacità ricettiva nel 2014 e avvalendosi delle accoglienze delle Prefetture e altri enti solo in via “straordinaria”. Cercando di accentrare tutti gli sforzi di integrazione si è pensato di rendere più efficaci le politiche in materia, passando da un approccio prettamente emergenziale ad uno sistemico e strutturale.

Il progetto SPRAR si è proposto di delineare un percorso più o meno standardizzato di accoglienza e di integrazione, in cui, oltre a provvedere ai servizi indispensabili, cerca di elaborare percorsi individuali e personalizzati al fine di fornire ai beneficiari gli strumenti per la formazione e l’inserimento lavorativo, per la ricerca di soluzioni abitative, provvedendo anche ad animazioni socio culturali.

 

 

Nonostante questo grosso tentativo di omogeneizzazione, molti aspetti, individuati dallo stesso Atlante SPRAR 2014, devono ancora essere resi pienamente operativi: si pensi al circuito degli HUB regionali, al miglioramento delle funzioni programmatorie dei Tavoli regionali, ai tempi ancora troppo lunghi per la definizione degli status dei richiedenti asilo. Oppure al percorso di adeguamento della normativa regionale che definisce standard e percorsi di accreditamento delle strutture di accoglienza per minori, come passaggi fondamentali per rendere concretamente praticabile l’accoglienza in SPRAR di tutti i minori stranieri non accompagnati.

Inoltre il numero di fuoriusciti dal programma in Italia nel 2014 era di 5855 persone; di cui il 31,9% di queste risulta aver raggiunto un avanzato percorso di inserimento socio-economico; il 32,8% ha abbandonato l’accoglienza di sua iniziativa, scegliendo un percorso differente da quello proposto nello SPRAR. Il 30,1% delle persone uscite ha visto “scaduti i termini”, da intendersi come completamento del progetto di accoglienza, in conformità con i tempi indicati dalle Linee Guida dello SPRAR e avendo beneficiato dei servizi messi a disposizione dal progetto territoriale. Il 4,9% è stato allontanato; lo 0,3% ha scelto l’opzione del rimpatrio volontario e assistito.

Da questo quadro si evince, in ultimo, che i percorsi delineati si sono spesso verificati fallimentari, e non hanno determinato il raggiungimento di autonomia e indipendenza socio economica dei soggetti beneficiari, che dovrebbe essere ovvia conseguenza di qualsiasi integrazione ben riuscita.

Un esempio emblematico lo troviamo nel contesto bolognese…  Gli operatori territoriali che fanno riferimento all’Help Center della Stazione centrale ha individuato una enorme quantità di fuoriusciti dai programmi di accoglienza straordinaria, come “Emergenza Nord Africa” e “Mare Nostrum” che ad oggi si ritrovano in situazioni di disagio socio-economico ed abitativo. Una stima approssimativa ne conta circa 2000. Sono soggetti senza dimora e senza un impiego, senza implementazione di competenze linguistiche e professionali…